“Stiffelio” racconta la famiglia, “Rigoletto” l’amore, “Falstaff” gli anziani: le sue opere sono analisi sociali.

Il Maestro era morto ormai da un mese. Aveva chiesto funerali «modestissimi, senza canti e suoni. Due candele e una croce». Eppure, il 27 febbraio del 1901, tutta Milano scese in piazza per una sorta di secondo funerale: trecentomila persone, Arturo Toscanini alla testa di 900 coristi e 120 orchestrali.

Fu quello il saluto che l’Italia volle dare a uno dei suoi «padri»: Giuseppe Verdi. Quella folla immensa non si accontentò di un sobrio e dimesso addio per onorare colui nel quale, per oltre cinquant’anni, si era riconosciuta.

È proprio questo lato di Verdi, la sua «arcitalianità», il suo essere stato acuto e incisivo osservatore e cantore del popolo italico, che va a sondare il nuovo libro di Alberto Mattioli, critico della Stampa nonché melomane da record (al momento ma il dato è del tutto provvisorio conta 1.600 recite d’opera viste). E siccome dell’ennesimo solito libro su Verdi non v’era urgenza, Meno grigi più Verdi (Garzanti, pagg. 150, euro 16), guarda al compositore di Busseto da un’altra angolatura, «quella dell’italiano», ovvero come «uno dei pochi intellettuali che hanno raccontato gli italiani per come sono, e non per come si credono di essere o vorrebbero essere». S’affaccia un nuovo volto di Verdi che, come sintetizza la spassosissima penna di Mattioli, diventa un «Lévi-Strauss padano» che ha saputo tratteggiare con sguardo sincero e disilluso i propri compatrioti. Meno grigi più Verdi è, dunque, un libro più sociologico e di costume che musicologico, una sorta di manualetto d’antropologia italica filtrata dai melodrammi del padre del melodramma. Sotto le maschere dei personaggi verdiani, infatti, si scorge «tutta una serie di tipi e situazioni e ambienti ricorrenti nella nostra storia e nei nostri costumi».

Prima di vedere, però, quanto sono intrise di italianità le sue opere, occorre vedere quanto è stato italiano lui, Verdi. Illuminanti, in questo, sono i capitoli iniziali sulla viscerale italianità dell’operista bussetano. Il Verdi uomo: non veniva da una famiglia di scarriolanti («un borghese orgoglioso di esserlo»), era severo, severissimo («se per qualsiasi ragione, vera o presunta, finivi sulla sua lista nera, non ne uscivi più»); e il Verdi politico: repubblicano, cavouriano, deputato svogliato (lo racconta egli stesso: «I 450 non sono realmente che 449 perché Verdi, come deputato non esiste»), liberale di destra e anticomunista («I Sinistri distruggeranno l’Italia»), senatore del Regno (sempre svogliatissimo: «Da senatore, Verdi brillerà solo per la sua assenza». Italianissimo). La profonda identità italica di Verdi si tradusse, così, nelle sue opere. Ecco alcuni apici dell’italianità verdiana: Stiffelio «svela i meccanismi della famiglia italiana più tradizionale e omertosa»; Rigoletto «è l’opera che racconta il rapporto del maschio italiano con le donne», «oggetto sessuale per il Duca; oggetto di amore esclusivo ma soffocante per Rigoletto»; Violetta della Traviata è «figura classica dell’immaginario nazionale, legato a un’idea della donna che è sempre o santa o puttana»; Riccardo del Ballo in maschera è il «vitellone di provincia»; ne La forza del destino, «il grand opéra dell’Italia contadina», Verdi racconta il tempo che fu, «un’Italia provinciale, cattolica, tradizionalista, legata ai suoi riti sociali e religiosi»; in Don Carlos si trova l’eterno dibattito dei rapporti tra Stato e Chiesa, ovvero il coraggio di «rappresentare in maniera così plastica la sconfitta del trono davanti all’altare»; dall’Aida parte «una forma mentis nazionale che alla fecondità delle terre da conquistare associa quella delle donne indigene»; l’anziano omonimo protagonista del Falstaff è «presuntuoso, disonesto, gaglioffo, malizioso ma alla fine tenero».

Insomma, tra gli italiani ottocenteschi e quelli d’oggi non c’è molta differenza. È per questo che Verdi deve tornare a essere a noi contemporaneo: se ciò avverrà, tornerà ad essere quello che è, colui che «ci racconta con spietatezza e con pietà, che ci mette a nudo, che non ci accarezza nel senso del pelo, che ci fa le domande che tentiamo di eludere, che ci svela le ipocrisie e le insufficienze, ma anche le generosità e le grandezze».

Mattia Rossi /IL GIORNALE, 16 febbraio 2018