Come fermare la Turchia islamista di Erdogan. L’analisi di Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera.

Non ripeteremo mai abbastanza che i curdi, in Siria come in Iraq, sono stati la nostra diga, il nostro baluardo, il muro di coraggio e di energia che ci ha protetti da Daesh. Dappertutto, in Siria non meno che in Iraq, sono riusciti a tener chiuse le frontiere dove gli eserciti iracheno e turco lasciavano aperte le porte attraverso cui arrivavano, scappavano, ripartivano gli islamisti che, mentre straziavano la regione, venivano in Europa a commettere attentati. Giunta la vittoria, questi combattenti curdi hanno avuto l’ingenuità di pensare che avrebbero potuto vivere, in pace, nel territorio da loro difeso, dove i loro cari sono morti e dove ora riposano. Ed ecco che, come premio della loro innocenza, sono ancora una volta perseguitati, torturati, assassinati, mutilati, ma ad Afrin, nel Nordest della Siria: sono stati la nostra diga, il cordone sanitario che conteneva la peste islamista ed ora sono braccati da un portinaio machiavellico, da uno che svuota le porte dell’inferno, da un Erdogan che trasforma la propria situazione geografica in pretesto per ricattare l’Occidente.

Di fronte a tanto cinismo, nelle alte sfere della comunità internazionale si è come le tre piccole scimmie della favola. Con gli occhi bendati davanti al martirio di uomini e donne, considerati dunque ammirevoli negli anni pari e insignificanti negli anni dispari. Con le orecchie otturate, soprattutto per non sentire il rumore delle cannoniere del neo sultano, che spinge il sarcasmo, l’insolenza e la provocazione fino al punto di chiamare — mescolando cinismo orwelliano ed esultanza beffarda — la sua pulizia etnica «operazione Ramo d’olivo». Con il dito sulle labbra, miserevoli per vigliaccheria, fingiamo di credere sulla parola alle dimostrazioni di umiltà plenipotenziaria e benevola della propaganda di Ankara, e non sappiamo far altro che ripetere, scuotendo gravemente il capo: «Niente, non è successo niente ad Afrin». A Mosca, alcuni vedono nel sudario di obbrobrio e di vergogna che la soldatesca turca, e quella al soldo della Turchia stendono sul Kurdistan siriano, il prezzo da pagare per la vittoria della loro vischiosa strategia regionale. A Washington, altri recitano la parte di esperti delle anticamere politiche, di demiurghi del tè delle cinque, ma in realtà hanno trovato, nel lasciapassare offerto agli artefici della pulizia etnica, la soluzione alla loro nuova volontà di avere la pace senza dover fare la guerra. Altrove, ovunque, regna lo stesso lungo e doloroso silenzio. Oppure si odono parole vane: «Oriente complicato… incomprensibili storie di frontiere e di cambiamenti di alleanze… perché litigare con un Paese potente e sovrano?». O ancora si odono chiacchiere da bar, dove i piccoli furbi e i grandi pigri, chini su presunti misteri nascosti, e non osando rialzare la testa per paura di dover osservare la propria codardia, sanno soltanto ripetere ininterrottamente che non si andrà a morire per Afrin come ieri non si andò a morire per Danzica… È l’eterna storia — classica, ahimè, nelle democrazie — dei migliori amici a tempo determinato, dei fratelli quando ci conviene, dei compagni d’armi che svaniscono velocemente come una story su Instagram.

È la continuazione della lunga notte dei popoli sfruttati e poi abbandonati come kleenex; dei liberatori trasformati in truppe ausiliarie; degli eroi strumentali, ma solo per il tempo di una battaglia e, per il resto, moneta spicciola del Grande Gioco delle transazioni geopolitiche. E poi, ma questo è inedito, è il frutto del patto faustiano che abbiamo stretto con Erdogan e che, semplicemente, non è più sopportabile. La Turchia, come il gatto di Schrödinger, può essere in effetti, e visibilmente, sia nella Nato che al di fuori. Può pretendere di stare sotto l’ombrello, certo bucato, dell’America, liquidando al tempo stesso apertamente coloro che furono i migliori alleati di quest’ultima. La Turchia ha generali ambidestri, che con una mano firmano decreti di eterna alleanza, a Londra o a Parigi, e con l’altra, tradendo subito gli impegni presi, con il Ramo d’olivo umiliano i loro presunti alleati. Ricicla i più temibili jihadisti, dà loro uno stipendio e li rimanda subdolamente a combattere, restando formalmente il Paese civile che continua ad ambire, come la Svizzera, la Norvegia o la Bosnia, a un partenariato strategico con l’Unione Europea. Ed ha un presidente che, grazie alle nostre debolezze, almeno per ora si sente abbastanza forte da fare dichiarazioni insensate, attraverso i propri ministri, sul presunto massacro dei curdi che sarebbe cosa da nulla in confronto alla colonizzazione dell’Algeria, colonizzazione che non autorizzerebbe certo la Francia a impartire lezioni. Questa atroce commedia è durata fin troppo. Se non la si blocca, il 2018 sarà da ricordare come un anno nero: con una cortina di ferro, turca, che si abbatterà sul popolo curdo. E bloccarla, oggi, significa rompere, non più «congelare», quella farsa che sono diventati i negoziati di adesione all’Europa; significa sciogliere la commissione parlamentare mista che continua ad esistere nel parlamento di Bruxelles; significa espellere la Turchia da un Consiglio dell’Europa che, detto fra parentesi, l’ha condannata 2.812 volte da quando vi è entrata; infine, significa porsi seriamente la questione della sua presenza in seno all’Alleanza atlantica. Erdogan non ci lascia più la scelta. O questi gesti di elementare fermezza, oppure, all’orrore del massacro dei curdi, si aggiungerà la vergogna di vedere il massacratore sogghignare, e continuare a sogghignare, sulle rovine del nostro onore.

(Bernard-Henri Lévy, Corriere della Sera 15 febbraio 2018)