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Nacque quasi alla fine dell’800, quando, e ancora per buona parte del secolo che succederà, non era possibile declinare le proprie generalità senza aggiungere la paternità e la maternità: Antonio Clemente nato a Napoli in via Santa Maria Antesaecula n.109 il 15 febbraio 1898, di Anna Clemente, nubile, paternità N.N. Resterà il grande cruccio di quest’uomo destinato a riempire le sale dei teatri e ad ingrassare i botteghini dei cinema, anche quando, oramai trentenne, potrà dichiarare la paternità che sarà nota anche all’anagrafe costretta a riscrivere l’atto di nascita del futuro “principe” cancellando quel Clemente e quelle N.N. per scrivere: Antonio De Curtis di Giuseppe e di Anna Clemente. Non è azzardato dire che fu questo il motivo vero che lo spinse ad intraprendere decine di cause per vedersi riconosciuti quei titoli che genealogicamente gli spettavano e che per sentenze di tribunali lo porteranno a dover aggiungere a quell’unico cognome paterno così a lungo desiderato chilometrici titoli a dimostrazione di una lontanissima discendenza blasonata. In ogni caso, per tutti è Totò e basta il nome, anzi un vezzeggiativo, per indicare un mito che resiste nel tempo e per riconoscergli il giusto posto nella nobiltà dell’arte: Totò “il principe della risata”.

Su Totò si sono scritte centinaia di pagine biografiche non sempre fedeli e veritiere, ma anche questa è la dimostrazione che l’uomo e l’artista continuano a far fare soldi. Non di rado è possibile imbattersi in pubblicazioni che pretendono di farci vivere un Totò giardiniere o un Totò cuoco. Stupidaggini che non tengono in reale conto la natura e l’animo di questo grande maestro che ha lasciato a tutti il bene prezioso del sorriso che vince le avversità.

La sua reale discendenza era quella della strada, anzi del vicolo napoletano purtroppo spoglio di parchi pubblici. La sua cucina fu quella della povera gente che mangiava “non pane e veleno, ma solo veleno”. La sua scuola fu quella delle misere feste “periodiche” che gli facevano sognare un mondo di allegria e spensieratezza. Il suo maestro fu Gustavo De Marco che “eccelleva e trascinava il pubblico al delirio, con le sue macchiette …con quelle danze sincronizzate da gesti del corpo e da mosse e smorfie del viso al ritmo di piatti e grancassa, con una perfezione tale da eccitare l’invidia e l’ammirazione di un acrobata di professione”.

La sua passione, la sua spasmodica passione fu per le donne da cui subiva e trasmetteva un fascino che lo rendeva cantore e poeta “Stu core analfabeta te lle purtato a scola e se mparato a scrivere, e se mparato a lleggere sultanto ‘na parola Ammore e niente cchiù”. Ma l’amore non sempre lo ripagò fino a spingerlo a scrivere per qualcuna “Femmena, tu si’ na malafemmena… a st’uocchie hê fatto chiagnere, lacreme ‘e ‘nfamitá…”. Fu un fustigatore dei soprusi e delle prepotenze: “Lei non sa chi sono io”, “Ma mi faccia il piacere!”. Fu sempre dalla parte della povera gente avendo buona consapevolezza di una umanità divisa tra “uomini e caporali”.

Era ben conscio di una comicità senza spocchie e così, vestito da clown, pregava il Signore: “…dacci ancora la forza di far ridere gli uomini, di sopportare serenamente le loro assordanti risate e lascia pure che essi ci credano felici. Più ho voglia di piangere e più gli uomini si divertono, ma non importa, io li perdono, un po’ perché essi non sanno, un po’ per amor Tuo, e un po’ perché hanno pagato il biglietto. Se le mie buffonate servono ad alleviare le loro pene, rendi pure questa mia faccia ancora più ridicola, ma aiutami a portarla in giro con disinvoltura. C’è tanta gente che si diverte a far piangere l’umanità, noi dobbiamo soffrire per divertirla; manda, se puoi, qualcuno su questo mondo capace di far ridere me come io faccio ridere gli altri”. Totò, Antonio Clemente, Antonio De Curtis, il principe della risata, un signore perché signore si nasce…e lui lo nacque.

(Franco Seccia/com.unica, 15 febbraio 2023)