L’editoriale del direttore de La Stampa Maurizio Molinari dedicato alle manifestazioni in corso nella Repubblica islamica.

Il nuovo anno inizia nel segno della rivolta contro il carovita in Iran, che ha tre risvolti: testimonia la forza indomabile di un popolo antico, evidenzia l’entità dei cambiamenti in atto in Medio Oriente e mette a dura prova i leader dell’Occidente.

Le proteste iniziate giovedì a Mashad nascono dallo scontento per l’aumento del costo della vita dovuto alla necessità della Repubblica islamica di finanziare gli interventi militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen a sostegno di milizie sciite strumento del disegno di estendere l’egemonia iraniana sull’intero Medio Oriente. Si tratta del cuore stesso del regime, perché tale imponente apparato militare e di intelligence è incarnato dai Guardiani della Rivoluzione, che rispondono direttamente alla Guida Suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei, e gestiscono anche gran parte delle risorse economiche nazionali senza troppo curarsi delle altre istituzioni della Repubblica islamica, a cominciare dal governo del presidente Hassan Rohani. Il fatto che gli iraniani, oggi in gran parte nati dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, abbiano la forza, l’energia e il coraggio di contestare il nucleo duro del regime degli ayatollah, al suo apogeo militare ed oramai privo di una reale opposizione politica interna, lascia intendere quanto siano radicati, estesi, condivisi i principi di libertà personale e rispetto per i diritti individuali. A quasi 40 anni dall’avvento della teocrazia degli ayatollah negli iraniani resta intatta la voglia di libertà che li portò a rivoltarsi contro la dittatura dello Shah, e ciò suggerisce alle democrazie la necessità di mostrare a questo popolo antico tutto il rispetto che merita. 

Per quanto concerne il Medio Oriente le proteste iraniane evidenziano la veridicità di uno dei principi-cardine della vita nel deserto: chi sembra forte non sempre lo è, e chi sembra debole non sempre lo è. L’Iran infatti è il più importante vincitore della guerra civile siriana, controlla una Mezzaluna di territori contigui da Teheran a Beirut – passando da Baghdad e Damasco – e tiene in scacco militare l’Arabia Saudita grazie ai ribelli houthi dello Yemen, che riescono perfino a minacciare Riad con i loro missili. L’arrivo delle avanguardie militari iraniane, affiancate dagli Hezbollah, alle pendici del Monte Hermon a meno di 10 km da Israele descrive l’indubbio successo tattico regionale dovuto al formidabile e spietato generale Qassem Suleimani, regista e guida di ogni operazione bellica all’estero, inclusa Hamas nella Striscia di Gaza. L’intento di Suleimani, che risponde solo a Khamenei, è di travolgere gli Stati sunniti e distruggere Israele per piegare agli sciiti l’intera regione da Hormuz a Suez come non è mai avvenuto dall’avvento nell’Islam. Ma tale e tanto sfoggio di potenza militare non ha alle spalle un’economia solida né tantomeno il sostegno popolare e così Teheran si trova obbligata a fare i conti con le proprie debolezze: un sistema produttivo non diversificato, la corruzione dilagante, l’accentramento della ricchezza nelle mani di pasdaran e ayatollah, la rabbia dei giovani che preferiscono Instagram alla sharia. La sovraesposizione bellica si è così trasformata in un boomerang, finendo per evidenziare le debolezze della Repubblica islamica.  

Se tutto questo mette alla prova l’Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l’Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l’Europa si voltarono dall’altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l’Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo – ma non solo – responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell’Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all’avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell’Onda verde Obama indirizzò l’America, e trascinò l’Europa, verso l’appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l’importanza della scelta dell’amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l’interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l’Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l’occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni. 

Maurizio Molinari, La Stampa 2 gennaio 2018