Irriverente e acuto, scomodo e profetico. Stenio Solinas sul Giornale ci offre il ritratto di un artista e intellettuale fuori da ogni regime.

Irriverente e acuto, scomodo e profetico. Ritratto di un artista e intellettuale fuori da ogni regime. Per cercare di spiegare che cosa fu il «fascismo selvaggio» di Mino Maccari, preferisco partire dalla fine, la trentina di oli della serie Dux dipinti con furia gioiosa e insieme tragica fra il 25 luglio e l’8 settembre del 1943, il sogno che è divenuto incubo, la retorica che ha ucciso l’epopea, il grottesco come unica chiave possibile di lettura e insieme di salvezza. Mussolini sul palcoscenico, Mussolini nudo e Mussolini condotto al passo dell’oca da Claretta Petacci, Mussolini e gli accademici e Mussolini e i gerarchi, e poi il re, il Führer, le cocottes, i fantasmi, la solitudine… Maccari aveva allora quarantacinque anni, era stato fascista da subito, aveva continuato, sbuffando, obbedendo, imprecando e facendosi periodicamente espellere dal partito, a esserlo fino ad allora, quando il crollo dell’impalcatura su cui il regime si era retto aveva fatto vedere la troppa cartapesta di cui era fatto. Così, chiudeva il Ventennio da squadrista, come da squadrista l’aveva cominciato: rissoso e iconoclasta, beffardo e sanguigno, ghignante e disperato. Perché poi dietro a quel Duce impietosamente messo a nudo, era il suo ritratto a emergere in primo piano. (…)

Nessun dittatore, nemmeno Lenin, nemmeno Hitler, tantomeno Stalin o Franco, è così strettamente legato alla cultura del suo tempo come fu Mussolini con quella italiana. Nel bolscevismo, così come nel nazionalsocialismo, è presente il carisma, la sudditanza e/o l’adorazione, ma Lenin non sarà mai il compagno di strada di Majakovskij, come Hitler non lo sarà di Jünger. Appartengono sì alla stessa temperie storica, ma provengono da percorsi diversi e parlano linguaggi diversi. Mussolini è invece il direttore dell’Avanti! che all’indomani della sua cacciata dal giornale e dal partito per la sua posizione interventista riceve un telegramma firmato da Prezzolini, Lombardo Radice e altri illustri vociani dove c’è scritto: «Partito socialista ti espelle, Italia ti accoglie». È l’aspirante rivoluzionario che per i Quaderni della Voce ha scritto Il Trentino veduto da un socialista, è il direttore di Utopia dove collaborano Missiroli e Bordiga, è il prefatore del Porto sepolto di Ungaretti, è l’unico politico che può visitare una coeva mostra d’arte futurista e capire di che si tratti.

È insomma molto di più e di diverso dalla vulgata riduttiva del Mussolini giornalista che ne prenderà il posto, nata, per dirla con la lingua toscana di Maccari, a babbo morto, quando cioè non c’è più e l’intellighenzia riscopertasi antifascista va creandosi una nuova verginità esente da contaminazioni divenute infamanti. Sminuire il perché di un’attrazione era insomma il primo passo per la successiva negazione. Un giornalista, sant’Iddio, cosa c’è di più volgare per il naso e le orecchie di un letterato degno di questo nome. Era tutto un equivoco, insomma…

E invece, se non si capisce questo, se non si capisce il Mussolini intellettuale, risuonano incomprensibili gli scritti di Maccari, come di Malaparte o di Longanesi, in cui ci si rivolge al Duce da pari a pari, così come l’idea, mutuata da Ardengo Soffici, che bastasse andare a parlaci a quattr’occhi perché le cose si risolvessero. Era uno di loro, semplicemente, facevano tutti parte dell’arco ventennale di una generazione: avevano letto gli stessi libri, si erano entusiasmati per le stesse cose, nutrito lo stesso disprezzo per l’Italietta giolittiana, visto nella Prima guerra mondiale l’esame da superare perché l’Italia potesse aspirare al rango di nazione. (…)

Senza fare dell’antifascismo una fede e/o una professione e sempre rifiutandosi di trasformare il suo frondismo durante il Ventennio in un’opposizione ideologica e coerente, a differenza di un Soffici, di un Sironi, dello stesso Longanesi, Maccari non si considererà mai né un vinto né un sopravvissuto, e tantomeno un orfano. C’era probabilmente in lui l’idea che nel gioco del dare e dell’avere rispetto al regime in cui aveva vissuto, egli fosse intellettualmente e artisticamente più in credito che in debito, l’idea che se ai tuoi sforzi non viene dato lo spazio e l’attenzione giusta, non è colpa tua e alla fine è peggio per gli altri. «Fui soltanto un fascista a modo mio», si limiterà in seguito a commentare.

Visse una vita lunghissima, Maccari, morì novantenne e quasi infastidito dai troppi onori: accademie, premi, cavalierati. Eppure, di quella serie Dux permise che ne fosse fatta una mostra pubblica solo trent’anni dopo, nel 1977, eppure, se si guarda a ciò che, dal punto di vista della satira, produsse nel secondo dopoguerra, si vedrà che i bersagli erano sempre gli stessi e il fatto che non indossassero più la camicia nera non li aveva resi migliori: «Date un dito/ all’inserito/ piano piano vuol la mano,/ poscia il braccio/ piglia al laccio,/ non satollo/ salta al collo». La sua epigrafe resta in fondo quella che da «fascista selvaggio» aveva fatto pubblicare quando ancora credeva che ci fosse spazio per un fascismo a modo suo, l’idea longanesiana che il fascismo non fosse «bello per quello che ha in sé, ma per quello che promette»: «Sia celebrato un triduo/ in memoria dell’ultimo Individuo».

Stenio Solinas/IL GIORNALE, 7 dicembre 2017