L’intervista allo scrittore israeliano Abraham Yehoshua, nona puntata di una serie articoli di Francesca Paci (per La Stampa) dedicati al centenario della rivoluzione bolscevica.

Correvano i tumultuosi Anni 50, Israele aveva visto la luce da poco, il comunismo seduceva come altrove i più idealisti tra i giovani, soprattutto nel movimento kibbutzim. Il grande scrittore israeliano Abraham Yehoshua era un ex militare pieno di sogni civili, segnato dalla Shoah ma proiettato verso il futuro. Dall’appartamento di Tel Aviv, dove ha traslocato per godersi i sei nipoti rinunciando all’amata Haifa, ripensa a quella stagione contraddittoria, una metafora del complesso rapporto tra il suo Paese e l’utopia sociale figlia della Rivoluzione d’Ottobre.

Quanta Unione Sovietica c’è nei primi kibbutz?

«Parte degli ebrei russi, laici e sionisti giunti in Israele prima della rivoluzione e quelli che arrivarono subito dopo riuscirono ad adattare i valori del comunismo alla nuova realtà sociale d’Israele. Non parlo solo dei kibbutz del “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo le sue necessità”, alcuni dei quali sono ancora allineati. Ma penso agli altri, quelli che hanno optato per la privatizzazione e sono rimasti fedeli ad alcune idee socialiste. Fino alla destalinizzazione di Krusciov si consumò un duro scontro ideologico tra i kibbutzim di estrema sinistra che chiamavano l’Urss “seconda patria” e i meno ortodossi. Anche i socialisti israeliani, alla guida del Paese fino al 1977, vedevano positivamente i princìpi dell’Urss nonostante le delusioni avute. Poi, negli anni, con il rafforzamento dei legami tra Israele e l’America, il tema ha diviso i partiti socialdemocratici da quelli più estremisti fino a indebolire i movimenti operai e spianare la strada alla destra nazionalista e religiosa».

Conosce l’esperienza dei kibbutz?

«Appena lasciato l’esercito andai a stare a Hatzerim, nel Negev, un kibbutz di successo ma, secondo lo stile dell’epoca, molto rigido nell’organizzazione interna. Non faceva per me, né sul piano individuale né su quello sociale, ero giovane e volevo studiare, mentre lì la priorità era il lavoro. Durai pochi mesi. Anche il comunismo non mi ha mai sedotto, ho sempre sentito che, diversamente dal socialismo, non poteva andare d’accordo con la democrazia».

Fin quando si è sentito in Israele l’eco della rivoluzione del 1917?

«Sono del 1936 e sin dall’adolescenza ho provato grande ammirazione per l’Urss, l’Armata Rossa ci aveva liberato da Auschwitz e aveva salvato l’Europa da Hitler. La repressione, di cui pure si sapeva, pesava meno. Inoltre negli Anni 50 le democrazie erano poche, l’orrore era “meno orribile”. Avevamo buoni rapporti con l’Urss, il suo sostegno alla nascita d’Israele nel 1947 era stato per noi una sorta di riparazione all’antisemitismo patito in Russia per secoli. All’epoca poi Mosca non s’interessava al Medio Oriente e tra i comunisti si contavano pochi arabi, soprattutto cristiani. Per questo il fatto che all’apice della Guerra fredda il ministro degli Esteri russo Gromyko si spendesse per noi all’Onu servì da base ideologica perché anche il cauto partito comunista palestinese accettasse il piano di spartizione tra ebrei e arabi del ’48».

C’erano molti ebrei tra i bolscevichi, Trockij compreso. Come spiega la successiva ostilità del regime sovietico?

«È comprensibile che gli ebrei russi, vissuti sotto la discriminazione zarista, promuovessero la rivoluzione comunista. L’involuzione successiva ha diverse ragioni. Gli ebrei non erano un popolo territoriale come gli altri, perciò non disponevano di un contesto concreto entro cui integrarsi culturalmente nell’ambito dell’Urss. Erano legati sul piano religioso agli ebrei sparsi nel mondo e recavano dunque a priori quel marchio di cosmopolitismo che divenne presto uno dei reati peggiori. Nel nome dell’oppio dei popoli Mosca fece guerra alle religioni, ma dato che quella ebraica era per molti la base dell’identità nazionale lo scontro fu più aspro. Infine, la chiusura delle frontiere sovietiche gravò doppiamente sugli ebrei dell’Europa orientale che scappavano in Occidente sin dal XIX secolo: quando la Germania invase il Paese si trovarono in trappola. È stato un rapporto duro. Secondo voci affidabili Stalin, prima di morire, progettava una sorta di “soluzione finale”, voleva esiliare gli ebrei in Siberia».

Quando è cominciato l’esodo degli ebrei dall’Urss verso Israele?

«A metà degli Anni 50 ero segretario generale dell’Unione mondiale degli studenti ebrei a Parigi e mi battei perché potessero emigrare. Prima non c’erano informazioni su quanto avveniva oltre-Cortina e gli stessi ebrei russi non volevano partire, non erano sionisti, si sentivano grati all’Urss. Iniziarono ad arrivare intorno al 1960, poi sempre di più. Ma nonostante l’esodo non ricordo critiche nei confronti dell’Urss in Israele, resisteva il mito antinazista, enfatizzammo la causa degli ebrei ridimensionando un po’ gli altri oppressi».

Il passaggio dell’Urss al fronte arabo nel 1967 influenzò l’allontanamento delle sinistre mondiali da Israele?

«Il ’67 cambiò tutto. Ma più dell’Urss, sui partiti comunisti occidentali pesarono l’occupazione israeliana e le colonie. Tra l’altro una parte della sinistra internazionale era sempre stata antisionista, penso a Primo Levi e Natalia Ginzburg».

Cosa resta a cento anni dall’assalto al Palazzo d’Inverno?

«Se il comunismo voleva creare nel mondo un ordine nuovo, ha fallito. Ma se lo esaminiamo come un’istanza ideologica nata per rimediare alla condizione sociale instauratasi in Europa dopo la Rivoluzione francese, beh, allora mantiene un valore. Le idee fondamentali del comunismo, esulando dai Paesi dove hanno imperato come dittatura, reggono. Mi chiedo se rispetto al capitalismo globale e senza limiti, al radicalismo religioso in espansione ovunque o al post-modernismo privo di valori dell’estrema sinistra nichilista, non convenga forse tornare ad alcuni vecchi e umani valori presenti nell’originale solidarismo comunista».

(Francesca Paci, La Stampa 2 novembre 2017)