[ACCADDE OGGI]

Oggi il calendario ci riporta alla mente un caso politico e giudiziario che undici anni fa fece discutere l’Italia e l’America creando forti contrapposizioni tra gli opposti schieramenti di sinistra e di destra e tra gli innocentisti e i colpevolisti a prescindere dai fatti. È il caso di Silvia Baraldini romana di nascita ma cresciuta negli Stati Uniti dove il padre era funzionario della ambasciata italiana a Washington. Era una “sessantottina” militante di quella sinistra integralista che lottava per un “altro mondo”, un mondo senza guerre, senza distinzione di classe di sesso e di colore, senza povertà e padroni, senza affaristi e banche.

Nutrire queste idee e adoperarsi con animo e corpo per attualizzarle la portò inevitabilmente ad imbattersi e ad associarsi ad alcune organizzazioni politiche che con prepotenza e con terrore credevano di ottenere “tutto” e la Baraldini ne divenne leader e portabandiera. Ma l’America, si sa, ci va duro contro coloro che con la forza pretendono di far valere le loro ragioni. E la Baraldini fu diverse volte arrestata, la prima volta per aver partecipato all’azione di un commando che liberò dal carcere l’afroamericana Assata Shakur, la terrorista filocastrista poi rifugiatasi a Cuba, poi perché ritenuta la mente dell’organizzazione comunista “19 maggio” che nell’ottobre del 1981 portò a segno la rapina del furgone blindato della Brink’s Bank di New York che costò la vita ai tre uomini della scorta. Certo non erano più i tempi di Nicola Sacco e di Bartolomeo Vanzetti che pagarono con la vita la loro presunta partecipazione alla rapina del calzaturificio di Boston, ma i giudici americani ci andarono ugualmente pesante e Silvia Baraldini fu condannata a 43 anni di carcere per il cumulo delle pene inflittale per l’assalto e la liberazione della Assata Shakur e per la partecipazione all’associazione sovversiva colpevole della rapina al furgone blindato.

Iniziò così la lunga detenzione della Baraldini nelle carceri americane anche per alcuni anni in regime di carcere duro perché sempre si rifiutò di aiutare gli inquirenti a scovare i membri dell’associazioni terroristiche “May 19th Communist Organization” e “Black Liberation Army”. Nel tempo e soprattutto a seguito della malattia che la colpì fu forte in Italia la voce di quanti protestarono per la dura condanna della Baraldini. Sorsero movimenti di sostegno per la sua scarcerazione e intellettuali e artisti si diedero un gran da fare per chiederne il rilascio e il rimpatrio in Italia. Canzoni, film, prose e poesie furono dedicate alla vicenda della ex “sessantottina” romana. Ma l’America continuò a ritenerla “altissimamente pericolosa” e non volle saperne fino a quando non arrivò alla Casa Bianca Bill Clinton mentre in Italia i postcomunisti con il ramoscello di ulivo imbracciato da Prodi si erano insediati a Palazzo Chigi. Lunghe trattative e braccio di ferro tra le diplomazie e le cancellerie giudiziarie. Alla fine con una dichiarazione dell’allora ministro italiano della Giustizia Oliviero Diliberto che disse di provare “gioia, soddisfazione e orgoglio” la Baraldini rientrò in Italia e per la prima volta in assoluto un detenuto, perché tale restava la Baraldini in base agli accordi per il suo rimpatrio con l’obbligo di continuare a scontare la condanna americana, fu accolta con tutti gli onori che normalmente si riservano ai “capi di stato”. Non mancarono le “malelingue” e c’è chi è disposto a giurare che vi fu uno scambio tra la scarcerazione della “terrorista” e i soldati americani responsabili della strage del Cermis che non furono estradati in Italia per essere sottoposti a processo.

In ogni caso, il calendario ci ricorda che il 26 settembre di dieci anni fa Silvia Baraldini che, anche se da detenuta con il beneficio degli arresti domiciliari era diventata collaboratrice per i problemi dell’occupazione femminile del sindaco capitolino Walter Veltroni, quello “Yes We Can”, fu definitivamente scarcerata per indulto così abbreviando la sua condanna di ben dieci anni.

(Franco Seccia/com.unica, 26 settembre 2019)