L’analisi del direttore de La Stampa Maurizio Molinari sulle strategie dei jihadisti all’indomani dell’attentato di Barcellona.

Il sospetto dell’antiterrorismo in Spagna è che la mente dell’attacco a Barcellona sia stato Abdelbaki Es Satty, l’imam di Ripoll morto nell’esplosione del covo di Alcanar. E poiché la cellula jihadista aveva, secondo gli inquirenti, il piano di far esplodere la Sagrada Familia abbattendo il simbolo della Cristianità iberica, ciò significa che lo Stato Islamico (Isis) voleva cogliere in Europa un risultato equiparabile all’11 settembre 2001 quando il commando di Osama bin Laden distrusse le Torri Gemelle di New York.

Ciò che colpisce nel parallelo con l’11 settembre non è solo l’obiettivo di demolire un edificio simbolo dell’Occidente – la finanza in America, la fede in Europa – ma anche la pista investigativa che porta dentro una moschea: oggi a Ripoll come allora alla moschea Al Quds di Amburgo, dove la cellula di Mohammed Atta nacque e si coordinò. Tale coincidenza pone l’interrogativo su come evitare che le moschee vengano sfruttate dai jihadisti per disseminare odio e formare kamikaze. Poiché le moschee sono un luogo di culto, frequentate da moltitudini di fedeli dell’Islam che nulla hanno a che vedere con la violenza, si tratta di un interrogativo tanto delicato quanto lo è il confine fra la tutela dei diritti dei singoli e la garanzia della sicurezza collettiva.

Per avere un’idea della necessità di affrontare la questione-moschee bisogna partire da quanto sta avvenendo nel mondo arabo-musulmano. In Giordania re Abdallah ha lanciato una «guerra senza tregua contro i salafiti jihadisti» e dal marzo 2016, quando venne smantellata la cellula Isis a Irbid, il governo controlla non solo i testi dei sermoni nelle moschee ma anche l’identità degli imam perché «si tratta di un conflitto che ha bisogno di una risposta culturale – spiegano da Amman – per sconfiggere chi promuove la violenza celandosi dietro l’Islam». Il risultato è quanto si può vedere, ad occhio nudo, nelle strade di Maan, la città giordana ex roccaforte jihadista, con moschee aperte ed altre chiuse perché era da qui che predicavano i jihadisti. Il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, è andato oltre, tre anni fa, con un discorso agli Ulema – i saggi dell’Islam sunnita – dell’ateneo di Al-Azhar chiedendo ad «ogni musulmano di guardarsi allo specchio» per essere protagonista di una «rivoluzione religiosa» capace di «estirpare la violenza dall’Islam», rivolgendosi agli imam così: «Andate nelle moschee e predicate contro chi vuole uccidere». Ahmed al-Tayyeb, il grande imam di Al-Azhar, è andato a La Mecca per declinare l’approccio di Al-Sisi in una proposta concreta: «Riformare l’insegnamento dell’Islam per sconfiggere la violenza» ovvero stringere i controlli anche sulle scuole coraniche. A Rabat il re del Marocco, Mohammed VI, è passato ai fatti perché l’Istituto per la formazione degli imam che porta il suo nome laurea guide spirituali – uomini e donne – il cui compito è «combattere il pensiero jihadista».

Ovunque gettiamo lo sguardo nel mondo arabo-musulmano il tema dei sermoni jihadisti è al centro della lotta al terrorismo: se gli Emirati Arabi Uniti di Khalifa bin Zayed bin Al Nahyan sono i più energici negli interventi repressivi, anche nel Kurdistan iracheno si parla di questo. La decisione del leader Massud Barzani è lapidaria: le moschee servono per pregare, non per fare politica, dunque vengono aperte cinque volte al giorno – quante sono le preghiere – ogni volta solo per 30 minuti, il tempo minimo necessario. «Chi vuole parlare di altro, vada altrove» dice Falah Mustafa Bakir, «ministro degli Esteri» del Kurdistan, sottolineando: «E’ nelle moschee che si battono i jihadisti». Tutto ciò descrive quanto sta avvenendo nell’Islam: uno scontro di civiltà fra chi combatte e chi promuove la violenza. L’interesse dell’Occidente è far prevalere coloro che si oppongono ai jihadisti. Da qui la sfida su come aiutarli, a cominciare dall’Europa dove il confronto investe le comunità musulmane.

A suggerire una possibile direzione di marcia è Seyran Ates, l’attivista femminista islamica che ha aperto a Berlino la prima moschea liberale con imam-donne, quando afferma: «Attentati come quelli di Barcellona hanno a che fare con l’Islam» e dunque tocca ai musulmani essere protagonisti del rigetto della violenza contro il prossimo. Per gli Stati europei impegnati a realizzare programmi di de-radicalizzazione, con più o meno successo, le parole della coraggiosa donna imam tedesca possono essere di aiuto: a fare la differenza, in Occidente come nel mondo arabo, è ciò che avviene dentro le moschee. Garantire senza remore il diritto alla libertà di fede di ogni credente musulmano deve e può accompagnarsi alla necessità che ciò avvenga nel più rigido rispetto della legge.

(Maurizio Molinari, La Stampa 20 agosto 2017)