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Nata di certo tu sei in Toscana, camicia nera. Su per quei monti ove cadde Ferruccio e s’aprono i valloni dell’Inferno di Dante, io ti vidi (e non eri che un’umile camicia da carbonai) mirabilmente fresca di recessi boschivi, nativa e pura come quella gente che vigila sulle alte fonti. Tu mi rammenti l’Appennino bruno i suoi crepuscoli profondi e mitici. Lassù ti vidi. E già del tuo colore si vestirono gli anni del riscatto, la Giovane Italia e Mazzini. Poi fosti manto di più duro lavoro, di utopie disperate. Hai conosciuto il fumo delle officine, la febbre degli anarchici, la lunga, eroica, faticosa storia d’un popolo in esilio….”. Sono alcuni versi della poesia di Vincenzo Cardarelli citata da Ernesto Galli della Loggia nella sua antologia “Poesia civile e politica dell’Italia nel Novecento” (edizioni Bur) e che secondo l’autore ci mette sotto gli occhi un Cardarelli passato di moda e che invece andrebbe riscoperto anche per questa poesia il cui tono -cozza visibilmente con le plurime evocazioni allegoriche chiamate a sorreggere la “gloriosa, / decente veste dell’Italia nuova”. 

Vincenzo Cardarelli poeta, scrittore e giornalista morì povero e privo di affetti in un letto del Policlinico di Roma il 18 giugno 1959. Solo, così come per fato e convinzione scelse di vivere la sua esistenza di figlio illegittimo di un bottegaio di Tarquinia, abbandonato dalla madre fin dalla sua fanciullezza, quella fanciullezza che farà “ruzzolare il mondo e il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto”.

Cercherà un destino diverso studiando da autodidatta e girando l’Italia. Correttore di bozze all’Avanti e poi redattore, corrispondente de La Voce e del Resto del Carlino, fonderà e dirigerà La Ronda e sarà l’animatore culturale de Il Tevere. Si legherà di amicizia con Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Emilio Cecchi, Antonio Baldini, Giuseppe Ungaretti e Amerigo Bartoli, ma sceglierà sempre la solitudine come compagna di vita.

Ennio Flaviano ne “La solitudine del satiro” ci parla di un Cardarelli al tramonto della vita come di un vecchio che stava tutti i giorni seduto a lungo al tavolino di un caffè di Via Veneto a Roma, incappottato anche in estate, con lo sguardo bonario e insieme scettico perso nel vuoto. I camerieri spiegavano ai curiosi che si trattava di un poeta, di uno scrittore, d’altri tempi, di un tipo, insomma, che viveva di nostalgie. Un cliente di rispetto che attirava gente e a cui volentieri si offriva la colazione.

Ma non di nostalgia viveva Cardarelli (di che cosa avrebbe dovuto avete nostalgia?) bensì di immaginifici pensieri inseguendo quei Gabbiani che “Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro, in perpetuo volo.

(Franco Seccia/com.unica, 18 giugno 2019)