L’economista Dani Rodrik dell’Università di Harvard sulle conseguenze del voto francese: l’auspicio è che la vittoria di Macron sia seguita da un ripensamento da parte della Germania in grado di far uscire il vecchio Continente dalla depressione occupazionale.

La vittoria di Emmanuel Macron su Marine Le Pen è stata la buona notizia tanto attesa da chiunque prediliga le società aperte e liberali rispetto a quelle nativiste e xenofobe. Ma la battaglia contro il populismo di destra è lungi dall’essere vinta.    

Le Pen ha ottenuto più di un terzo dei voti al secondo turno, pur avendo ricevuto l’appoggio di un solo altro partito, peraltro piccolo – Debout la France di Nicolas Dupont-Aignan – oltre al proprio. Inoltre, l’affluenza alle urne è stata nettamente inferiore rispetto alle precedenti elezioni presidenziali, il che indica che molti elettori si sentono delusi. Se Macron fallirà il suo compito nei prossimi cinque anni, Le Pen tornerà sulla scena più baldanzosa che mai, e i populisti nativisti si rafforzeranno sia in Europa che altrove.

Come candidato, Macron è stato aiutato, in quest’epoca di politica anti-establishment, dall’aver mantenuto le distanze dai partiti politici tradizionali. Come presidente, però, questo stesso fatto rappresenta uno svantaggio. Il suo movimento politico, En Marche!, ha soltanto un anno di vita. Macron, pertanto, dovrà costruire una maggioranza legislativa partendo da zero dopo le elezioni dell’Assemblea Nazionale che si terranno il mese prossimo.    

Le idee economiche di Macron non si prestano a una facile caratterizzazione. Durante la campagna per le presidenziali, egli è stato spesso accusato di scarsa concretezza. Per molti, sia di sinistra che dell’estrema destra, Macron è un neoliberista con poche differenze rispetto alle politiche tradizionali di austerità  che hanno tradito l’Europa trascinandola nell’attuale impasse politica. L’economista francese Thomas Piketty, che ha sostenuto il candidato socialista Benoît Hamon, ha descritto Macron come uno che rappresenta “l’Europa di ieri”.    

Molti dei progetti economici di Macron hanno effettivamente un’impronta neoliberista. Egli ha promesso di abbassare l’aliquota dell’imposta sulle società dal 33,5% al 25%, tagliare 120.000 posti di lavoro nella pubblica amministrazione, mantenere il deficit pubblico al di sotto del tetto del 3% del Pil fissato dall’Ue, e aumentare la flessibilità del mercato del lavoro (un eufemismo per “rendere più facile licenziare i lavoratori”). Ma ha anche promesso di mantenere le prestazioni previdenziali, e il suo modello sociale preferito sembra essere la flessicurezza in stile nordico, una combinazione tra elevati livelli di sicurezza economica e incentivi di mercato.      

Nessuna di queste misure aiuterà granché – certamente non nel breve termine – ad affrontare la sfida chiave destinata a definire la presidenza di Macron, cioè la creazione di posti di lavoro. Come osserva Martin Sandbu, l’occupazione era la preoccupazione principale dell’elettorato francese e pertanto dovrebbe essere la priorità principale della nuova amministrazione. Dai tempi della crisi dell’eurozona, il tasso di disoccupazione francese si è mantenuto elevato, pari al 10%, e ha quasi sfiorato il 25% tra la popolazione con meno di 25 anni. Non esiste praticamente alcuna prova del fatto che la liberalizzazione dei mercati del lavoro farà aumentare l’occupazione, a meno che l’economia francese non riceva anche uno stimolo significativo sul fronte della domanda aggregata.   

E qui entra in gioco l’altro elemento del programma economico di Macron. Egli ha proposto un piano quinquennale di stimolo del valore di 50 miliardi di euro (54,4 miliardi di dollari), che include investimenti in infrastrutture e tecnologie verdi, unitamente a un vasto programma di formazione per i disoccupati. Considerando, però, che ciò corrisponde a poco più del 2% del Pil annuo della Francia, il piano di stimolo da solo potrebbe non fare molto per aumentare l’occupazione complessiva.    

L’idea più ambiziosa di Macron è compiere un grande passo in avanti verso un’unione fiscale dell’eurozona, con un tesoro comune e un ministro delle finanze unico. Nella sua ottica, ciò consentirebbe trasferimenti fiscali permanenti dai paesi più forti ai paesi che sono penalizzati dalla politica monetaria comune. Il bilancio dell’eurozona verrebbe finanziato da contributi provenienti dalle entrate fiscali degli Stati membri. Un parlamento dell’eurozona separato garantirebbe sorveglianza e responsabilità a livello politico. Tale armonizzazione renderebbe possibile per paesi come la Francia incrementare la spesa per le infrastrutture e rilanciare l’occupazione senza sforare alcun tetto fiscale.    

Un’unione fiscale sostenuta da un’integrazione politica più profonda ha certamente senso. Se non altro, essa rappresenta un percorso coerente per uscire dall’attuale terra di nessuno che è l’eurozona. Ma le politiche palesemente europeiste di Macron non sono solo una questione di politica o di principio. Esse sono anche cruciali per il successo del suo programma economico. Senza una maggiore flessibilità fiscale o trasferimenti dal resto dell’eurozona, difficilmente la Francia uscirà dalla sua depressione occupazionale tanto presto. Il successo della presidenza di Macron, pertanto, dipende in larga misura da una cooperazione a livello europeo.    

E questo ci conduce alla Germania. La prima reazione di Angela Merkel al risultato elettorale non è stata incoraggiante. Pur congratulandosi con Macron, che “incarna le speranze di milioni di cittadini francesi”, la cancelliera tedesca ha anche dichiarato che non intende prendere in considerazione eventuali modifiche alle regole fiscali dell’eurozona. Ma se anche Merkel (o un futuro governo guidato da Martin Schulz) fosse più ben disposta, resta il problema dell’elettorato tedesco. Avendo raffigurato la crisi dell’eurozona non come un problema di interdipendenza, ma come un racconto morale – tedeschi lavoratori e frugali contro debitori prodighi e sleali – non sarà facile per i politici tedeschi convincere i propri elettori a seguirli in un progetto fiscale comune.            

Prevedendo la reazione tedesca, Macron ha così replicato: “Non si può dichiarare di essere a favore di un’Europa forte e della globalizzazione, ma di non volere assolutamente un’unione dei trasferimenti”. Questa, a suo avviso, è una formula destinata a generare disgregazione e una politica reazionaria: “Senza trasferimenti, non si consentirà alla periferia di convergere verso il centro e si creerà una divergenza politica verso gli estremisti”.  

La Francia non si trova certo alla periferia dell’Europa, ma il messaggio di Macron alla Germania è chiaro: o mi aiutate e insieme costruiamo una vera unione – economica, fiscale e anche politica – o finiremo travolti dall’onda estremista. 

Macron ha quasi sicuramente ragione su questo. Per il bene della Francia, dell’Europa e del resto del mondo dobbiamo sperare che la sua vittoria sia seguita da un ripensamento da parte della Germania.

Dani Rodrik*/project-syndicate, 9 maggio 2017

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.