Torna “I grandi cimiteri sotto la luna”, il capolavoro scritto da Georges Bernanos durante la guerra civile spagnola: un atto d’accusa non pacifista.

Sono passati più o meno ottant’anni, da quando Georges Bernanos scrisse I grandi cimiteri sotto la luna, e a rileggerlo oggi (SE editore, 233 pagine, 25 euro) salta agli occhi quello che per questo arco di tempo si è evidentemente fatto finta di non vedere: il più bel saggio «populista» scritto all’epoca, profetico nel suo aggrapparsi e nel suo rifarsi al popolo, unico antidoto contro le dittature e contro le democrazie… Oggi che per le élites al potere il populismo suona come una bestemmia occorrerebbe invece riflettere se la strada contraria imboccata, tecnocratica e globalista, non sia in realtà un senso vietato: «Per gli immensi cimiteri di domani non occorrerà alcuna giustificazione. Appiccherebbero il fuoco all’umanità per un colpo di Borsa, senza curarsi un istante di sapere come spegnerlo. Nulla sanno dell’uomo che, tra loro, definiscono una macchina per perdere o guadagnare soldi».

Tutto nei Grandi cimiteri sotto la luna è all’insegna del paradosso. Il più celebre atto d’accusa sulla guerra civile spagnola e sul franchismo fu scritto da un cattolico che aveva un figlio volontario nella Falange e che non nascondeva la sua ammirazione per il capo della stessa, José Antonio Primo de Rivera. Invece di chiedersi il perché, si preferì pensare si trattasse della presa d’atto della «legalità» repubblicana, eppure, nelle sue pagine, nero su bianco, Bernanos aveva scritto: «La democrazia sociale ha sfruttato l’idea di giustizia, e non ha mantenuto nessuna promessa, fuorché quella del servizio militare obbligatorio e della nazione armata. La democrazia parlamentare ha sfruttato l’idea del diritto». E ancora: «È adesso che la democrazia affonda. E voi affondate con essa. Noi vi guardiamo affondare. Non ci sta più nel mondo, forse, alcunché di legittimo, di cui possa, secondo le mie speranze, venir riconosciuto il diritto come lo concepivano i nostri padri». Atto d’accusa contro il carnaio di quella guerra civile, non lo era neppure nel nome del pacifismo in quanto tale: «Non è l’uso della forza che mi sembra condannabile, ma la sua mistica; la religione della forza messa al servizio dello Stato totalitario, delle dittature della Salute Pubblica, considerato non come un mezzo, ma come un fine». Né era il «lealismo» dei Repubblicani di Spagna ad attrarlo: «Tutte quelle loro combinazioni politiche non mi interessano affatto. Il mondo ha tutto quello che gli occorre, ma non gode di nulla, perché manca d’onore. Il mondo ha perduto la stima di se stesso».

Nulla nei Grandi cimiteri sotto la luna è fatto per piacere a un palato democratico, tantomeno a un palato democratico, progressista e capitalista. Sono la moderna società di massa e la tirannia dell’economia a preparare il suicidio dei popoli, la loro dannazione nel nome di un nichilismo disperato che falsa ogni equilibrio sociale e dà la stura a passioni collettive omicide, proprio perché poggiano sul nulla. Non è l’analisi di un reazionario, tantomeno di un uomo di destra: «Noi non eravamo di destra. Votavamo per il nascente sindacalismo. Preferivamo correre l’alea di una rivoluzione operaia, piuttosto che compromettere la monarchia con una classe rimasta da un secolo completamente estranea alla tradizione degli avi, al senso profondo della nostra storia, e il cui egoismo, la stoltezza e la cupidigia erano riusciti a stabilire una specie di servitù più inumana di quella un tempo abolita dai nostri re. Non ci sarebbe mai venuta l’idea di allearci, in nome dell’ordine, con quei vecchi radicali reazionari schierandoci contro gli operai francesi».

La Spagna per Bernanos è in fondo un modo di parlare alla Francia, e la monarchia per lui era una fede e un’idea, qualcosa che poggiava su una storia e un’identità plurisecolare: era la modernità novecentesca ad aver allargato il solco fra ciò che era stato e il presente che veniva proposto. «Esiste una borghesia di sinistra e una borghesia di destra. Non c’è invece un popolo di sinistra e un popolo di destra, c’è un popolo solo. Tutti gli sforzi che potreste fare per imporgli dal di fuori una classificazione elaborata dai dottrinari politici non riuscirebbero a creare nelle masse che correnti e controcorrenti, quelle di cui profitterebbero gli avventurieri». E la colpa della società moderna è proprio l’aver «lasciato distruggere lentamente, in fondo alla propria cantina, una meravigliosa creatura della natura e della storia».

Non era realista, Bernanos, ma a vedere che cosa ha portato il realismo politico del Novecento, il disprezzo che «i machiavellici» nutrono verso gli idealisti, e che si tramuta in cinismo criminale, non è poi una colpa così grave… Come scriverà in La liberté, pour quoi faire?, «prima di osar parlare di giustizia sociale, cominciate con il rifare una società, imbecilli!. Avete appena eliminato sotto le bombe una civiltà di cui avevate già nelle coscienze distrutto il principio, e per voi giustizia sociale non è che un pretesto per liquidare ciò che di questo mondo resta e saccheggiarlo fin negli ossari».

Così, anche il suo popolo è naturalmente un’astrazione, un simbolo, un’idea e del resto Bernanos soffriva dello stesso male di Charles Péguy, «la vocazione della Francia», ovvero l’idolatria delle radici, il senso smisurato del suo onore nazionale, uniti a un già ricordato disprezzo per il reale e a una cattiva conoscenza del mondo esterno. E però è proprio questa «certa idea della Francia» a rispuntare nella sua storia quando meno te l’aspetti, immaginaria eppure vera, proiezione di un desiderio e insieme memoria profonda. È nel suo nome che negli anni Trenta Bernanos alzò la sua voce mentre tante altre voci francesi tacevano o mentivano. Ed è la sua che ancora oggi si può sentire senza vergogna.

Stenio Solinas, IL GIORNALE, 1 aprile 2017