A sessant’anni dal Trattato di Roma una riflessione dell’economista dell’Università di Harvard Dani Rodrik sul futuro incerto dell’Europa e l’urgenza di una revisione radicale delle istituzioni comunitarie.

In questo mese l’Unione europea celebrerà il 60mo anniversario del Trattato di Roma, con il quale venne istituita la Comunità economica europea. I motivi per festeggiare sono indubbiamente tanti. Dopo secoli di guerre, sconvolgimenti politici e uccisioni di massa, per l’Europa si apre finalmente un periodo di pace e di democrazia. L’Ue ha accolto al suo interno undici paesi dell’ex blocco sovietico, guidando con successo la loro transizione verso l’era post comunista. E, in un’epoca di disuguaglianze, gli stati membri dell’Ue vantano il più basso divario reddituale rispetto a qualunque altro paese del mondo.    

Ma questi risultati sono ormai datati. Oggi l’Unione è intrappolata in una profonda crisi esistenziale, e il suo futuro appare alquanto incerto. I sintomi sono visibili ovunque – dalla Brexit agli intollerabili livelli di disoccupazione giovanile in Grecia e Spagna, dall’indebitamento e dalla stagnazione che affliggono l’Italia all’ascesa dei movimenti populisti, fino a una reazione di rifiuto nei confronti degli immigrati e dell’euro – e tutti indicano la necessità di una revisione radicale delle istituzioni europee.   

Per tutte queste ragioni, il libro bianco sul futuro dell’Europa del presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker non poteva arrivare in un momento migliore. In esso, Junker delinea cinque possibili percorsi: proseguire con l’agenda attuale, concentrarsi solo sul mercato unico, consentire un’Europa a più velocità, ridimensionare l’agenda, o puntare all’ambizioso obiettivo di un’integrazione omogenea e più completa.  

È difficile non provare solidarietà per Juncker che, stretto tra i politici europei alle prese con le loro battaglie interne da un lato, e le istituzioni europee convertitesi in bersaglio della frustrazione popolare dall’altro, non poteva esporsi più di così. Ciò non toglie, però, che il suo rapporto lasci delusi, poiché tralascia la sfida più importante che l’Ue dovrebbe affrontare e vincere.  

Se si vuole che le democrazie europee tornino in salute, non può continuare a esserci una sfasatura tra l’integrazione economica e quella politica: o l’integrazione politica allunga il passo e raggiunge quella economica, oppure quest’ultima deve rallentare. Finché si eviterà di affrontare questa decisione, l’Ue resterà un organismo disfunzionale. 

Di fronte a questa difficile scelta, c’è un’alta probabilità che gli stati membri assumano posizioni diverse lungo il continuum dell’integrazione politico-economica, e questo significa che l’Europa deve sviluppare la flessibilità e i meccanismi istituzionali necessari per soddisfarle.

Sin dagli albori, la costruzione dell’Europa si è basata su una teoria “funzionalista” secondo cui all’integrazione economica sarebbe seguita quella politica. Il libro bianco di Juncker si apre con una citazione del 1950 del fondatore della Comunità economica europea (e primo ministro francese) Robert Schuman: “L’Europa non potrà farsi in una volta sola né sarà costruita tutta insieme, bensì attraverso realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà de facto”. Cominciamo col mettere a punto i meccanismi della cooperazione economica, poi questo preparerà il terreno per delle istituzioni politiche comuni.      

All’inizio questa strategia ha funzionato: l’integrazione economica restava un passo avanti rispetto all’integrazione politica, ma non troppo avanti. Poi, dopo gli anni Ottanta, l’Ue fece un salto nel buio, adottando un’ambiziosa agenda del mercato unico che puntava a unificare le economie europee, indebolendo le politiche nazionali che intralciavano la libera circolazione non solo di beni, ma anche di servizi, persone e capitali. L’euro, che istituiva la moneta unica in un sottogruppo di paesi membri, fu la logica prosecuzione di questo programma. Fu una sorta di iper-globalizzazione su scala europea.   

La nuova agenda era trainata da molteplici fattori. Molti economisti e tecnocrati pensavano che i governi europei fossero diventati troppo interventisti e che una profonda integrazione economica e una moneta unica avrebbero disciplinato gli Stati. In quest’ottica, lo squilibrio tra le fasi economica e politica del progresso d’integrazione rappresentava una caratteristica, non un difetto. 

Molti politici riconobbero che tale squilibrio poteva creare problemi, ma diedero per scontato che il funzionalismo alla fine avrebbe aiutato e che, nel tempo, le istituzioni politiche quasi federali necessarie per sostenere il mercato unico si sarebbero sviluppate.

Le principali potenze europee fecero la loro parte. I francesi pensarono che trasferire l’autorità economica ai burocrati di Bruxelles avrebbe favorito il potere nazionale e il prestigio globale della Francia. I tedeschi, spinti dal desiderio di ottenere il consenso francese alla riunificazione della Germania, li assecondarono. 

Un’alternativa c’era. L’Europa avrebbe potuto incoraggiare lo sviluppo di un modello sociale comune parallelamente all’integrazione economica, che avrebbe reso necessaria l’integrazione non solo dei mercati, ma anche delle politiche sociali, delle istituzioni del mercato del lavoro e delle disposizioni fiscali. La diversità tra i modelli sociali in Europa, unitamente alla difficoltà di raggiungere un accordo su regole comuni, avrebbe posto un freno naturale al passo e all’estensione dell’integrazione. 

Lungi dall’essere uno svantaggio, ciò avrebbe offerto un’utile misura correttiva per una velocità e un’ampiezza dell’integrazione più auspicabili. Il risultato avrebbe potuto essere un’Ue più piccola e più profondamente integrata nel complesso, oppure un’Ue con lo stesso numero di membri di oggi, ma molto meno ambiziosa in termini di portata economica.   

Ormai potrebbe essere troppo tardi per tentare un’integrazione fiscale e politica dell’Ue. Meno di un europeo su cinque è favorevole alla cessione di poteri da parte degli Stati-nazione che ne fanno parte. 

Gli ottimisti diranno che ciò non dipende tanto da un’avversione verso Bruxelles o Strasburgo in sé quanto dall’associazione del concetto di “più Europa” all’insistenza dei tecnocrati sul mercato unico e dall’assenza di un modello alternativo convincente. Forse i nuovi leader e le formazioni politiche emergenti riusciranno a elaborare un simile modello e a riaccendere l’entusiasmo per un progetto europeo riformato.

D’altro canto, i pessimisti spereranno che, in qualche angolo nascosto dei corridoi del potere a Berlino e Parigi, economisti e avvocati stiano segretamente lavorando a un piano B da attuare il giorno in cui un allentamento dell’unione economica non potrà più essere rinviato. 

Dani Rodrik*/project-syndicate, marzo 2017

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.