L’analisi del direttore de La Stampa Maurizio Molinari sulla politica della sicurezza della nuova amministrazione Usa.

La politica di sicurezza dell’amministrazione Trump parte da Pyongyang. Se la Nord Corea è considerata il pericolo più urgente da affrontare è perché dispone di armi atomiche, tenta di sviluppare vettori balistici per lanciarle e minaccia non solo due democrazie alleate – Sud Corea e Giappone – ma anche, al di là dell’Oceano Pacifico, la Costa Occidentale degli Stati Uniti.

Le informazioni a disposizione di Seul, Tokyo e Washington convergono nell’indicare la possibilità di un nuovo test atomico nordcoreano così come il recente lancio di quattro missili verso il Giappone testimonia l’aggressività del regime di Kim Jong-un e l’eliminazione in Malaysia del fratello Kim Jong Nam – considerato vicino a Pechino – lascia intendere una diminuita capacità della Cina di condizionare l’imprevedibile vicino. I colloqui avuti da Trump con il premier giapponese Shinzo Abe e dal capo del Pentagono James Mattis con i suoi parigrado sudcoreani e nipponici hanno portato la Casa Bianca a considerare che fra le molteplici crisi internazionali lasciate in eredità da Barack Obama quella nordcoreana è la più impellente da affrontare. Da qui la decisione di inviare in Sud Corea il sistema anti-missile «Thaad» – il più avanzato scudo balistico basato a terra in possesso del Pentagono – e i bombardieri B-52, capaci di trasportare qualsiasi arma. Si tratta solo del primo passo.

Sul tavolo del presidente americano vi sono altre opzioni, confezionate da Mattis, dal consigliere per la sicurezza Herbert McMaster e dal Segretario di Stato Rex Tillerson. Dall’inasprimento delle sanzioni a Pyongyang al reinserimento della Nord Corea nella lista degli Stati che sostengono il terrorismo, dal posizionamento di armi nucleari americane in Sud Corea fino a raid mirati contro gli impianti missilistici di Pyongyang. Già il fatto di avere a disposizione tali opzioni costituisce una novità rispetto a Obama, che ritenendo di non poter fare alcunché contro uno Stato oramai nucleare aveva preferito delegare la gestione del delicato dossier alla Cina. Ma non è tutto perché, a ben vedere, l’approccio di Trump alla Nord Corea ha altri tre aspetti che contribuiscono a comprendere meglio le mosse della Casa Bianca. Il primo è tutto americano ed ha a che vedere con il fatto che se la Nord Corea possiede armi nucleari è perché i suoi leader dalla metà degli Anni Novanta sono riusciti a farsi beffa di Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama. Alternando promesse di dialogo, accordi e minacce, Pyongyang ha sistematicamente ingannato i tre predecessori di Trump riuscendo a guadagnare il tempo necessario per arrivare a disporre di armi nucleari. Dunque, il suo arsenale atomico costituisce la più lampante dimostrazione di una somma di imbarazzanti errori diplomatici e strategici bipartisan da cui si genera oggi una potenziale minaccia diretta contro gli Stati Uniti. Riuscendo a fermare Pyongyang, Trump può dunque dimostrare di essere protagonista di una politica di sicurezza più pragmatica ed efficiente degli ultimi presidenti, tanto democratici che repubblicano.

Il secondo risvolto della questione nordcoreana è l’Iran. Negli ambienti del Pentagono è diffusa da tempo la convinzione che Teheran e Pyongyang condividano la tecnologia missilistica. Il missile iraniano Shahab-3 è stato realizzato alla fine degli Anni Novanta sul modello del nordcoreano Nodong, il Shahab-2 su quello del Qiam a metà degli Anni Ottanta ed ora il sospetto è che il più recente Khorramshahr – testato il 29 gennaio – sia una variante del Mudusan, derivato dal sovietico R-27. C’è dunque una correlazione fra la scelta della Casa Bianca di adottare sanzioni contro Teheran dopo il lancio del Khorramshahr – ammonendo gli ayatollah a «non giocare con il fuoco» – e l’inasprimento dell’approccio a Pyongyang. Trump affronta Iran e Nord Corea come due aspetti della stessa minaccia: la proliferazione delle armi di distruzione di massa.

Infine, la Cina. Aumentare la pressione su Kim Jong-un rientra nella decisione di Trump di cambiare radicalmente l’approccio a Pechino. Se finora a Washington bastavano le rassicurazioni cinesi su Pyongyang, ora dovrà essere Pechino a rispondere del rapporto privilegiato con la più spietata dittatura del Pianeta, dotata di atomiche. Dopo aver aperto con Pechino il fronte commerciale ed aver giocato la pedina di Taiwan irritando Xi Jinping, la Nord Corea è la terza mossa di Trump – in meno di 60 giorni – che suggerisce la volontà di un contenimento aggressivo del grande rivale sullo scacchiere del Pacifico. Dunque, a ben vedere la partita di Pyongyang conta per Trump assai più della stessa Nord Corea, assomiglia piuttosto ad un assaggio del suo approccio all’eredità internazionale ricevuta da Obama.

(Maurizio Molinari, La Stampa 13 marzo 2017)