Quella del centravanti della Roma è la storia illuminante di un grande sportivo capace più volte di rialzarsi dopo una caduta. Dalle bombe di Sarajevo alla gloria odierna.

Nel film-cult “Ogni maledetta domenica” Oliver Stone faceva dire al coach Tony D’Amato (alias Al Pacino): “Scopriamo che la vita è un gioco che a volte dipende da pochi centimetri”. È quel che deve aver pensato lo scorso anno Edin Dzeko quando tutto andava storto e la porta avversaria gli appariva sempre piccola come quella del calcio balilla. Arrivato a Roma con la fama del goleador di razza che avrebbe dovuto far rivivere nella capitale i fasti di un grande del passato come Gabriel Batistuta, è apparso sin dall’inizio della stagione scorsa invece lontanissimo dagli elevati standard di rendimento a cui aveva abituato prima i tifosi tedeschi del Wolsburg (85 reti in 142 partite) e successivamente quelli del Manchester City (72 gol in 189 partite).

Dopo averlo accolto come un messia quando sbarcò per la prima volta all’aeroporto di Fiumicino il pubblico romano di sponda giallorossa ha iniziato a poco a poco a spazientirsi nell’assistere alle sue prove sempre più incolori e a gaffe imperdonabili quasi a porta vuota come contro il Palermo e il Real Madrid. Questo ha contribuito non poco a far precipitare il gigante bosniaco nel peggiore degli incubi, dal quale sembrava impossibile riemergere. Ma chi lo conosceva bene non dubitava del fatto che non si sarebbe arreso così facilmente e che prima o poi avrebbe trovato la forza e le motivazioni giuste per reagire e per tornare ad essere il grande campione ammirato in Germania e in Inghilterra. E così dopo un anno lo ritroviamo a quota 22 gol tra campionato e coppe e capocannoniere della serie A con 15 in coabitazione con gli argentini Mauro Icardi e Gonzalo Higuain, centravanti che l’anno scorso segnavano (soprattutto il secondo) anche a occhi chiusi.

Oggi Dzeko sembra aver subito una metamorfosi rispetto a quello irriducibilmente avvilito dello scorso anno: ha ritrovato fiducia in se stesso ed è diventato un’autentica macchina da gol. Una rinascita a cui ha contribuito in maniera determinante un grande motivatore come Luciano Spalletti, che gli ha dato fiducia quando la sua autostima era precipitata ai minimi storici, incoraggiandolo costantemente prima dell’inizio del campionato: “Devi essere solo più cattivo in area e vedrai che tornerai quello di una volta” gli ripeteva insistentemente quando tutti nell’ambiente romanista davano per scontata la sua partenza, con destinazione i dorati lidi cinesi. Il tecnico toscano d’altra parte non ha mai avuto dubbi sulle qualità umane e da grandissimo attaccante del suo centravanti: “Se un allenatore potesse ‘creare’ un attaccante, lo farebbe proprio identico a Dzeko – ha detto. “Lui è il prototipo perfetto: forte, alto, rapido per la sua taglia, combattivo, aggressivo e con buona tecnica”.

E così il cigno di Sarajevo ha ripreso a volare, anche se i continui stimoli del suo allenatore probabilmente sarebbero serviti a ben poco in mancanza di una grande determinazione e una forza di carattere fuori del comune, forgiate fin dai primi anni di vita vissuti pericolosamente in un quartiere popolare di Sarajevo dove nell’aprile del 1992 sarebbe iniziato un assedio durato quattro lunghissimi anni. Anni d’inferno, in cui gli abitanti della capitale bosniaca sono stati costretti ogni giorno a vivere sotto il fuoco ininterrotto dei cecchini e dei cannoni serbi, che hanno provocato l’uccisione di 12 mila suoi concittadini, tra cui ben 1.600 bambini: una tragedia immane. Un’infanzia vissuta tra le macerie e l’odore acre della morte, con i rumori delle bombe e i sibili dei proiettili che gli avrebbero fischiato per sempre nelle orecchie. Lui stesso l’ha ammesso in diverse interviste: “È vero, la guerra mi ha reso più forte e mi ha dato la consapevolezza del valore di ciò che effettivamente conta nella vita”. Non c’era molto da mangiare e aveva sempre paura: “Quando sentivamo gli spari o le bombe che cadevano, ci nascondevamo dove capitava. Potevi morire in qualsiasi momento, un vero incubo”. La sua casa è andata distrutta nel corso dei bombardamenti e “così – ricorda – siamo andati a vivere dai nonni. Stavamo in 15 in un appartamento di circa 35 metri quadri. Era durissima. Eravamo sotto stress perché ogni giorno poteva morire qualcuno che conoscevamo. Tanti iniziavano a giocare per strada, ma per me era quasi impossibile. Alla fine della guerra, però, ero molto più forte mentalmente”.

Quel calcio di strada ha rappresentato per per lui l’unico modo per sottrarsi, almeno per qualche ora del giorno, a un incubo terribile e per provare a vivere quella gioia della spensieratezza che dovrebbe essere un diritto sancito per tutti i bambini del mondo. Ma i rischi erano sempre incombenti, dietro l’angolo. In una giornata estiva del 1993 la madre di Edin aveva insistito più del solito affinché non si muovesse da casa per raggiungere gli amici che giocavano a pallone. “Provavo come una strana sensazione – ha raccontato la donna di recente al quotidiano tedesco Bild. “Nella guerra avevamo perso la nostra abitazione, molti dei nostri familiari erano morti”. Edin per una volta (succedeva di rado) aveva obbedito al richiamo della madre. Qualche minuto più tardi, tre granate furono scagliate sul campetto di calcio improvvisato. “Quel giorno ho perso molti amici” ricorda oggi il calciatore della Roma.

Scampata alla guerra, la sua famiglia aveva deciso di restare nella Bosnia Erzegovina della ricostruzione e Edin, al contrario di molti suoi connazionali, avrebbe potuto continuare nel suo paese a coltivare la passione per il calcio. Si accorgerà di lui Jusuf Šehović, allenatore delle giovanili dello Željezničar di Sarajevo, che lo farà esordire in prima squadra nel ruolo di centrocampista. Il suo idolo in quegli anni era Andrij Shevchenko e inseguendo le gesta del campione milanista finirà in seguito per giocare da vero centravanti, in quello che per lui sarà il ruolo naturale. Anche se a dire il vero sarà accostato più ad attaccanti come Luca Toni e l’inglese Peter Crouch per la sua conformazione fisica: alto 1,93, verrà soprannominato Kloc, il lampione. Il resto è storia nota: nel 2007 firmerà con il Wolsburg di Felix Magath (un cognome che evoca sinistri ricordi nei tifosi juventini), dove vinse uno scudetto e la classifica dei cannonieri nel 2010; poi l’approdo al Manchester City e infine alla Roma, fortemente voluto da Rudi Garcia e dal direttore sportivo Walter Sabatini.

Quella di Edin Dzeko è una storia illuminante di un grande sportivo capace più volte di rialzarsi dopo una caduta, celebrata nei giorni scorsi anche nel sito ufficiale dell’Uefa. In fondo lungo l’arco della carriera di un calciatore non capita di rado passare in pochissimo tempo dai grandi trionfi alle delusioni più cocenti. La differenza la fanno proprio coloro che trovano dentro loro stessi la forza mentale per non farsi schiacciare dagli eventi esterni finendo inghiottiti in un vortice di negatività. Se ci pensiamo bene sono proprio storie come queste che contribuiscono a rendere lo sport (e il calcio in particolare) affascinante a ogni latitudine in quanto capace di far scattare nello spettatore un processo di identificazione difficilmente riscontrabile in altri campi e che si manifesta, come ha scritto Maxwell Maltz, quando “la nostra mente non distingue un’esperienza vividamente immaginata da un’esperienza realmente vissuta”. Il calcio, insomma, come metafora della vita, in cui per emergere ad alto livello non è sufficiente disporre di un grande talento se questo non è accompagnato da altre virtù fondamentali (coraggio, forza d’animo, tenacia, intelligenza, ecc.). Un concetto ribadito nel corso degli anni da tanti scrittori e filosofi, da Sartre a Pasolini, e così ben sintetizzato dal grande Albert Camus, portiere in gioventù: “Ciò che so riguardo a doveri e moralità lo devo proprio al calcio”.

(Sebastiano Catte, com.unica 4 gennaio 2017)