Barcellona Pozzo di Gotto, Messina, 8 gennaio 1993. Alle 22,30 e in via Marconi c’era, affiancata al marciapiede, una Renault 9 rossa, il motore acceso, avvolta in una nuvola di fumo. A bordo, il cadavere di un uomo ucciso da tre colpi di pistola esplosi in viso. Si trattava di Beppe Alfano, professore di Educazione Tecnica nella scuola media di un paese vicino, ma anche giornalista, collaboratore e cronista per il giornale La Sicilia. Un bravo giornalista, di quelli che hanno un fiuto particolare nel trovare le notizie, con una rete di confidenti e di contatti negli ambienti giusti. Un uomo dal carattere forte, intransigente, poco incline ai compromessi. Un uomo tutto di un pezzo, con le idee chiare su valori, giustizia, Stato, cresciuto negli ambienti di destra, nella destra di Almirante, militante nel Movimento Sociale. Soprattutto, un uomo che diceva sempre quello che pensava e scriveva quello che sapeva. Per questa sua peculiarità, sapeva anche di essere in pericolo, che presto lo avrebbero ammazzato.

Sin dalla fine degli anni ’70 Barcellona Pozzo di Gotto era un centro importante per la mafia: si trovava sulla rotta del contrabbando di sigarette e di droga, vi si trovava la raffineria di eroina di Francesco Marino Mannoia, il chimico di Cosa Nostra e c’era un importante ospedale psichiatrico giudiziario, in cui trovano ospitalità boss della mafia italiana e americana, e della ‘Ndrangheta. A Barcellona Pozzo di Gotto circolavano molti soldi intorno agli appalti e ai subappalti del raddoppio della linea ferroviaria, dell’autostrada Messina – Palermo, di cui si fece garante il boss Francesco Rugolo, amico di molti politici. A Messina la mafia era sotterranea, silente, era legata a politici, imprenditori e forze dell’ordine. A Messina la mafia era alleata con la cosca di Nitto Santapaola, boss di Catania. Negli anni ’80 gli equilibri saltarono: nel 1986 tornò in città, dopo la galera, Pino Chiofalo, detto ‘u seccu, e sferrò un attacco contro il clan barcellonese che allora dominava la scena. Chiofalo si muoveva al di fuori delle regole di Cosa Nostra e con i suoi duecento fedelissimi fece una mattanza, decapitando i vertici del clan. Arrestato durante un summit di capi mafia accusò le forze dell’ordine di complicità con don Nitto Santapaola, che di fatto aveva voluto farlo fuori.

Nel 1991 Beppe Alfano iniziò a scrivere per il giornale La Sicilia, mettendo subito in evidenza quali fossero i veri interessi del sistema barcellonese. Referente di Nitto Santapaola sul territorio era Giuseppe Gullotti, detto l’Avvocaticchio. Nel 1992 a Barcellona Pozzo di Gotto venne istituito un Tribunale diretto dal P.M. Olindo Canali che non esitò a definire la cittadina un avamposto mafioso della Sicilia orientale. Presto tra Canali e Alfano si strinse un forte legame, Alfano con le sue inchieste e il suo intuito diventò un riferimento e un aiuto per il magistrato, e questo forse gli costò la vita. Due giorni prima di essere ucciso, Beppe Alfano aveva chiesto a Canali di incontrarlo, era urgente, ma non ce ne fu il tempo, perché fu assassinato.

Negli ultimi tempi si era interessato alla faccenda dell’erogazione dei contributi AIMA per l’avvio delle imprese, agli appalti del raccordo ferroviario e ai rapporti tra AIAS (ente per l’assistenza agli spastici) e imprenditoria barcellonese. Era inoltre convinto che a Bacellona P.G. si nascondesse Nitto Santapaola. Non ne ebbe mai la conferma perché morì prima di scoprirlo, ma effettivamente Nitto Santapaola si trovava a Barcellona Pozzo di Gotto in via Trento, a poche decine di metri dalla casa di Beppe Alfano. I familiari e in parte gli inquirenti sostengono che ad ucciderlo sia stata la scoperta, a Barcellona Pozzo di Gotto, di una sorta di loggia massonica che riuniva i rappresentanti del potere ufficiale e delle famiglie mafiose. In realtà c’era un antico circolo culturale, denominato Corda Fratres, che perseguiva nobili obiettivi quali la cultura, la salvaguardia della democrazia e la lotta alla criminalità organizzata. Di questo circolo faceva parte anche Gullotti, che ne fu espulso quando fu accertata dalle autorità la sua affiliazione a Cosa Nostra.

Nel novembre del 1993 furono emessi tre ordini di custodia cautelare in carcere per Nino Mostaccio, presidente dell’AIAS, ritenuto il mandante dell’omicidio Alfano; per Giuseppe Gullotti, ritenuto l’organizzatore dell’omicidio e per Nino Merlino, killer della cosca di Gullotti, ritenuto l’esecutore: ad accusarlo un collaboratore di giustizia che lo aveva visto parlare con Alfano prima del ritrovamento del corpo.

Nel 1998 la Corte d’Appello di Messina confermò la condanna per Merlino e inflisse una pena di trent’anni a Gullotti, mentre Mostaccio fu scagionato. Successivamente la Cassazione annullò la condanna a Merlino che nel 2002 fu assolto dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Gullotti invece restò in carcere.

Il pentito Maurizio Avola, della cosca Santapaola, accusato della morte del giornalista Giuseppe Fava, nelle sue dichiarazioni parlò dell’omicidio Alfano. Secondo Avola, Alfano stava indagando sui traffici miliardari dietro il commercio degli agrumi, sul riciclaggio del denaro sporco attraverso i fondi europei, attività che aveva il suo centro a Barcellona Pozzo di Gotto e che era controllata da Nitto Santapaola. Insomma, con le sue inchieste aveva dato fastidio a più di qualcuno, ma la verità sulla sua morte resta tuttora un mistero.

Dopo la scomparsa di Beppe Alfano, la mafia cercò di screditarne la reputazione, diffondendo false informazioni circa una ipotetica pista passionale, addirittura macchiandone la moralità additandolo come pedofilo. Da vivo era rimasto solo, senza appoggi, neanche da parte del partito. L’avvocato della famiglia Alfano, Fabio Repici, lo ha definito come “l’unico granello di sabbia in un ingranaggio perfetto. Un granello di sabbia che andava rimosso”. Un’altra brutta storia di mafia.

Resta il ricordo di un uomo coraggioso che non si è piegato, come altri giornalisti a cui è toccata la stessa sorte: Peppino Impastato, Mario Francese, Giuseppe Fava, Mauro Rostagno.

(Nadia Loreti, 11 gennaio 2017)