Con Le leggende degli ebrei (Adelphi) si conclude l’opera di Louis Ginzberg. Le aristocrazie reale e sacerdotale sono unite in una sola figura. La recensione di Giorgio Montefoschi sul Corriere.

Con il sesto volume, a cura di Elena Loewenthal, nel quale sono narrati gli episodi biblici che vanno dalla strabiliante conquista di Gerico per merito di Giosuè alla pura e bellissima Ester che, a Susa, salva gli ebrei dalle follie del re Assuero e dallo sterminio, si concludono Le leggende degli ebrei (Adelphi). Raccolte in circa trent’anni di lavoro (dal 1909 al 1938) dallo studioso lituano Louis Ginzberg, emigrato nel 1899 negli Stati Uniti, le Leggende attingono all’immaginario del popolo ebraico riflesso nell’Antico Testamento.

Si tratta di un bagaglio immenso che non ha le sue origini soltanto nel poderoso materiale narrativo tramandato all’ombra della sinagoga. Comprende anche la sterminata letteratura apocrifa e pseudoepigrafica, nella quale confluirono testi latini e siriaci, copti e aramaici, arabi e persiani. Affiora nelle opere dei Padri della Chiesa. È la grande storia della creazione del mondo, con gli oceani abitati da pesci giganteschi, i monti, le pianure, gli alberi e gli animali; la storia di Adamo ed Eva, Caino e Abele; il racconto del diluvio e dell’arca; le vicende di Abramo e Isacco, Esaù e Giacobbe; la depravazione di Sodoma; la torre di Babele; l’esilio e il ritorno; il castigo divino e il perdono. Centrale, in questo ultimo volume, è la figura di Davide. Pronipote di Miriam, sorella di Mosè, discende da una famiglia eletta nella quale l’aristocrazia reale si fonde con quella sacerdotale. Suo padre è Isai, uno dei maggiori eruditi del suo tempo, ma anche uno dei quattro uomini morti assolutamente immacolati, senza peccato. Un giorno, una delle sue schiave si innamora di lui e lo concupisce. Isai non resiste alla tentazione. Il Signore, però, lo vuole salvare e consiglia Nasebet, la moglie di Isai, di travestirsi da schiava e prendere il suo posto. Così, Isai non fa peccato: perché si congiunge con sua moglie e da questo amplesso ignaro, che solo perla volontà di Dio non è illecito, nasce Davide. La Bibbia (primo libro di Samuele 16,12), lo descriverà «fulvo, con begli occhi, e di gentile aspetto».

Dalle Leggende, sappiamo che avrebbe dovuto rimanere in vita soltanto tre ore, se non ci fosse stata l’intercessione di Adamo che pregò il Signore di sottrarre settanta anni alla sua esistenza e donarli a quel bambino. Il Signore accetta e in aggiunta annuncia che questo bambino avrà tre doni: quello della bellezza, quello del dominio, e quello della poesia. Passa qualche tempo. Considerato dal padre figlio illegittimo, Davide è mandato nel deserto, lontano dai fratelli, a pascolare le pecore. Il deserto — come sapremo dai Vangeli — è il luogo della purificazione. Nella solitudine e nel silenzio, il corpo si fortifica, l’anima lotta con se stessa, si tempra, e rinasce. Davide uccide tre leoni e due orsi, ma tratta con gentilezza il suo gregge: è un Buon Pastore. Dio se ne accorge e dice: «Sa come occuparsi delle pecore: diventerà dunque il pastore del mio gregge, che è Israele». Quando ha ventotto anni ed è ancora a guardia del gregge, Samuele, inviato da Dio, lo unge re. La scena è famosa. Il profeta, che ha con sé un corno ripieno di olio sacro, sapendo che il futuro re sarà uno dei discendenti di Isai, si reca nella sua casa e esamina, uno dopo l’altro, tutti i figli. Ma, ogni volta che, convinto di aver trovato la persona giusta, inclina il corno per rovesciare l’olio sulla sua testa, l’olio si ferma; e Dio, come scritto nella Bibbia (i Sam 16,7), ammonisce Samuele. «Non guardare — gli dice — al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore». Allora Samuele chiede a Isai se ci sia un ultimo figlio. Viene introdotto il Pastore e sul suo capo l’olio si riversa a profusione.

Dunque, Davide sarà re. Saul, che è l’attuale re d’Israele, viene a sapere della bellezza, della forza e delle straordinarie doti di questo ragazzo, tra le quali c’è quella di suonare magnificamente la cetra. E siccome è triste, perché lo spirito del Signore si è ritirato da lui e invece è atterrito da uno spirito cattivo, lo vuole con sé a corte. Davide va; viene accolto; quando si accorge che la tristezza di Saul lo atterrisce, prende la cetra, e canta. Ma «l’unto del Signore», non ha soltanto il dono della poesia, ha quello della forza e del coraggio, necessario al domino che Dio, al momento della sua nascita, gli ha promesso. E lo dimostra ben presto. Nella lotta contro il gigante filisteo, Golia, che uccide con un colpo di fionda. Nella guerra contro gli Amalechiti: sempre aiutato dal Signore che gli è accanto e, di notte, nella battaglia finale, illumina l’oscurità con una miriade di lampi. Quando decide di strappare Gerusalemme agli idolatri che la occupano, i Gebusei, e le mura inaccessibili della città miracolosamente si abbassano consentendogli di entrarci.

I trionfi di Davide accendono la gelosia di Saul: che ora lo odia e vorrebbe eliminarlo. Poi, dopo inutili battaglie, Saul muore (si suicida gettandosi contro la sua spada) e Davide viene proclamato re. Le straordinarie vittorie, comunque, non hanno cambiato l’uomo timorato di Dio. A mezzanotte, le corde della sua arpa, fatta col budello del montone sacrificato da Abramo sul monte Moria, cominciano a vibrare. Lui si sveglia e, su quelle note, compone i suoi Salmi. Vorrebbe anche edificare un Tempio per celebrare la gloria del Signore. Ma il Signore glielo impedisce. Tramite il profeta Natan, gli manda a dire di non farlo, perché se fosse costruito da lui, sarebbe un Tempio eterno, e il Signore sa che Israele si macchierà di tante colpe e, per questo, il Tempio (che dovrà edificare Salomone) sarà distrutto.

Dio non abbandona mai Davide, come fa con tutti i suoi figli, che il più delle volte non capiscono, e pensano il contrario. Quando Davide, che è sposato sei volte, gli chiede di essere indotto in tentazione, in modo da poter dimostrare la propria fermezza, lo fa peccare con Betsabea, la moglie di un suo generale (le Leggende raccontano che, mentre passeggiava sulla terrazza, una freccia abbatté il paravento dietro il quale la donna si stava pettinando; la Bibbia dice che Betsabea stava prendendo il bagno). Poi gli manda contro la carestia. Poi lo colpisce con la ribellione di un figlio, Assalonne: che è il più grande dolore. Lo ha abbandonato? No.

Sono passati i settanta anni, intanto, regalati da Adamo. Davide si è pentito e chiede al Signore di conoscere il giorno in cui morirà. Lui gli risponde che non può dirglielo, perché ha disposto che nessun uomo conosca il giorno della sua morte, ma che sarà di Sabato. Allora — non volendo morire, come nessun uomo, e sapendo che l’Angelo della Morte non può colpire chi sta osservando un precetto del Signore — Davide, ogni Sabato, studia incessantemente la Torah. Fin quando, il mattino di un Sabato che coincide con la festa di Pentecoste, Davide non sente un rumore in giardino, si alza e va a vedere cosa possa essere, e muore. Ma ora è in Paradiso. La morte non coincide con la fine della sua Gloria; è «soltanto un cambio di scenario». Ora si è ricongiunto al Padre. E, seduto davanti a Lui, intona Salmi di una bellezza ammaliante.

(Giorgio Montefoschi, Corriere della Sera 20 dicembre 2016)