Nato nel 1920, partigiano combattente, con un libro del 1991 inaugurò un nuovo modo di considerare la Resistenza nella cultura di sinistra. Ma non concesse nulla al fascismo. (dal Corriere della Sera)

Per lungo tempo l’uso del termine «guerra civile» per definire la lotta partigiana rimase interdetto tra gli studiosi di orientamento antifascista. Fino alle soglie degli anni Novanta, solo i nostalgici di Salò adoperavano quell’espressione, che pure corrispondeva a un aspetto centrale degli eventi tra il settembre 1943 e l’aprile 1945. Se il tabù ideologico è stato superato da tempo, si deve principalmente a Claudio Pavone, che si è spento a Roma dopo una vita dedicata con grande impegno agli studi storici. Fu lui, che proprio oggi avrebbe compiuto 96 anni, a intitolare ‘Una guerra civile il suo fondamentale saggio sulla lotta di Liberazione uscito nel 1991 da Bollati Boringhieri. Nessuno poteva rimproverare a Pavone una qualche indulgenza verso il fascismo, in primo luogo per la sua attiva partecipazione alla Resistenza. Nato a Roma nel 1920 in una famiglia borghese (suo padre era avvocato di Confindustria), si era unito ai partigiani nell’autunno del 1943 e aveva conosciuto il carcere, prima nella capitale e poi a Castelfranco Emilia. Riottenuta la libertà, si era trasferito a Milano, dove aveva proseguito la lotta correndo notevoli rischi, come aveva raccontato nel libro ‘La mia Resistenza’ (Donzelli, 2015), fino alla Liberazione. In seguito era stato molto vicino a una delle figure più rappresentative dell’azionismo e poi della sinistra socialista, Vittorio Foa. Non aveva invece subito il fascino del Pci togliattiano, come testimonia il diario del suo viaggio in Urss nel 1963, pubblicato pochi mesi fa da Laterza con il titolo Aria di Russia, in cui lo storico romano constatava a più riprese come a Mosca gli studiosi seri fossero ben più avanti dei comunisti italiani nella critica alla tirannia staliniana e ai suoi strascichi.

Se Pavone aveva deciso di adottare nel suo lavoro l’espressione «guerra civile», non era certo per fare concessioni alle camicie nere e ai loro eredi, nei cui riguardi la sua condanna rimaneva fermissima, ma perché la riteneva adeguata alla comprensione delle caratteristiche peculiari che la Resistenza — fenomeno di portata europea, presente in quasi tutti i territori occupati dal Terzo Reich — aveva assunto in un Paese dove il fascismo era nato, si era imposto e aveva governato per vent’anni, trovando ancora gente disposta a seguirlo e a combattere in suo nome, con ben scarse prospettive di vittoria, dopo la completa bancarotta del regime il 25 luglio e il disastroso armistizio dell’8 settembre 1943.

Non tutti avevano accettato quella svolta interpretativa: suoi ex compagni di lotta, come Nuto Revelli e Giorgio Bocca, avevano contestato le tesi di Pavone, ma spesso con argomenti che confermavano come essi stessi avessero vissuto l’impegno partigiano coltivando una tipica mentalità da guerra civile, tendente a escludere il nemico dal consorzio nazionale.

Tra gli studiosi invece la sua impostazione era stata accettata, anche perché il libro indicava altre dimensioni della Resistenza oltre a quella che gli dava il titolo: all’interno dell’esperienza partigiana individuava anche una guerra di Liberazione, contro gli occupanti tedeschi, e una guerra di classe, protesa al superamento per via rivoluzionaria della struttura economica capitalista.

Era insomma, Una guerra civile, un’opera di finezza e complessità straordinarie, che si confrontava senza timori anche con le fonti e le testimonianze di parte fascista, pur sottolineando sempre con forza che la repubblica di Mussolini non aveva “nulla di nuovo da offrire o da far sperare”, mentre la Resistenza, pur con i suoi limiti, le sue ingenuità e le sue divisioni interne, aveva saputo “caricarsi di speranze e di progetti per il futuro”.

Del resto Pavone era assai rigoroso nel respingere ogni appello in favore della cosiddetta “memoria condivisa”, che considerava un “concetto senza senso”. Proprio perché lo scontro tra partigiani e combattenti della Rsi aveva avuto una portata ideale di enorme rilievo, non si poteva metterci una pietra sopra, con il rischio di banalizzare non soltanto la Resistenza, ma anche il fascismo e il suo rilievo storico.

Docente di Storia contemporanea all’Università di Pisa, Pavone era giunto tardi all’insegnamento universitario, poiché fino al 1974 aveva lavorato come archivista, curando in quel periodo, assieme a Piero D’Angiolini, una utilissima Guida generale agli archivi di Stato italiani in tre volumi. Ma già allora si era dedicato a lavori di ricostruzione storica, come i saggi degli anni Cinquanta confluiti nel volume ‘Gli inizi di Roma capitale’ (Bollati Boringhieri, 2011). E la lunga esperienza di archivista aveva indubbiamente stimolato il suo interesse per la continuità dello Stato, da cui erano scaturiti diversi scritti poi raccolti sotto il titolo ‘Alle origini della Repubblica’ (Bollati Boringhieri, 1995).

Pavone riteneva che l’azione sommersa degli apparati burocratici avesse traghettato dal regime mussoliniano all’Italia postbellica “veleni autoritari” nefasti, capaci di infiacchire gli slanci politici innovatori e di compromettere i “tentativi di democrazia”. Si era anzi convinto che l’atteggiamento severo assunto dai vincitori verso la Germania avesse avuto il risvolto positivo di consentire ai tedeschi una rottura più netta con il passato nazionalsocialista, rispetto alla situazione compromissoria che si era venuta a creare in Italia, di cui ravvisava effetti dannosi anche nel presente, con la persistenza di tratti negativi del nostro carattere nazionale, come “il conformismo, la mancanza di senso dello Stato, il primato assoluto dell’interesse privato”.

Ciò nonostante, non voleva rassegnarsi all’idea “che vi siano campi dell’agire umano nei quali non è possibile si manifestino valori positivi”. Pur fra molti dubbi, era convinto che le istituzioni statali non fossero soltanto il suggello del “volto demoniaco del potere”, riteneva che anche al loro interno fosse possibile praticare una forma elevata di senso etico. Era anche questa del resto la molla che lo aveva spinto da giovane a prendere le armi contro i tedeschi e i fascisti: Pavone vedeva nella Resistenza l’aspirazione a superare, “innanzitutto nelle coscienze”, il divario abissale «tra moralità pubblica e moralità privata» che affligge da secoli il nostro Paese. Un progetto rimasto irrealizzato e forse per certi aspetti utopistico ma che a suo avviso poteva continuare a svolgere “una funzione civile” anche ai nostri giorni.

Antonio Carioti, Corriere della Sera, 29 novembre 2016