Martedì 17 novembre, nell’ambito del ciclo di cene dedicate ad argomenti di cultura romana, promosse dalle associazioni Iter e Per Roma e curate da Marco Ravaglioli e Simone Ferrari, si è tenuta nella sede di “Per Roma” in via Nazionale 66, un’interessante cena evento sulla Comunità ebraica di Roma, in cui si è cercato di raccontare la storia antica e tormentata di una delle comunità più antiche e autenticamente” romane” della Capitale, tratteggiandone i costumi, le vicende storiche e le tradizioni.

Particolare attenzione nel corso della serata è stata dedicata alla cucina ebraica romana, rinomata da sempre ma ancora forse non conosciuta abbastanza. Dopo una puntuale e brillante presentazione della conviviale, il “padrone di casa” Marco Ravaglioli, presidente di Iter, ha introdotto il relatore d’ eccezione della serata: Sandro Di Castro, già presidente della Comunià ebraica romana e presidente della loggia romana di Bene Berith, l’importante organizzazione mondiale non governativa ebraica, con seggi permanenti presso l’Onu e le Istituzioni Comunitarie Europee, dedita sin da sempre alla promozione di iniziative culturali, di formazione e beneficenza.

La serata è stata un clamoroso successo, ottenendo l’adesione di moltissime persone che hanno ascoltato con grande interesse i relatori, incuriosite dalla possibilità di conoscere meglio questa affascinante comunità ed i segreti della cucina giudaico romana. Presente alla serata anche un importante esponente della comunità ebraica, come Fabio Perugia, portavoce della Comunità Ebraica di Roma. Oltre ai numerosi associati, amici ed ospiti di Iter Per Roma giunti per ascoltare Sandro Di Castro, anche il giornalista e scrittore Pino Pelloni e Sergio Franci.

Lo stimolante e completo intervento di Di Castro, ha rapito l’attenzione dell’uditorio, riuscendo a descrivere in maniera chiara, semplice e mai noiosa sia cosa significa esattamente cucina Kosher e tutte le regole che questa comporta, sia le profonde motivazioni storiche e spirituali, che hanno plasmato le tradizioni culinarie giudaiche a Roma.

Abbiamo così appreso che la cucina ebraica è costituita da piatti semplici e ricchi di gusto, fatti con ingredienti poveri ma che nelle mani abili delle bravissime cuoche del Ghetto, si sono trasformati in manicaretti squisiti, frutto della creatività di questo popolo che nonostante le grandi ristrettezze in cui era costretto a vivere al tempo dei Papi, ha costruito comunque nei secoli una tradizione gastronomica apprezzatissima.

Gli abitanti del Ghetto infatti sin dalla sua istituzione, versavano in condizioni di estrema povertà, poiché obbligati dagli editti papali fino al 1870 a svolgere solo lavori umilissimi come il robivecchi o lo straccivendolo. Ciò già limitava in sé l’alimentazione degli ebrei, a pochi ed umili ingredienti come uova, latte, alcuni scarti dei pesci, frattaglie come la coratella, ed alcune verdure. Questi cibi erano annoverati ai tempi tra i cibi di scarto dei mercati, e diventavano grazie all’ inventiva delle massaie dell’ epoca vere prelibatezze: l’ esempio più tipico è proprio la bottarga nata da uova di pesce che venivano scartate e oggi considerata una pregiata leccornia.

In aggiunta alle limitazioni economiche vi erano vari editti papali che proibivano l’uso di certi alimenti in maniera molto severa, imponendo invece l’impiego esclusivo a tavola di materie prime molto povere.

A testimonianza di ciò, Sandro Di Castro, cita due bolle papali che dettavano le limitazioni in caso di banchetti nel ghetto e che danno un chiaro quadro della situazione di privazione in cui gli ebrei vivevano. La prima bolla cui si fa riferimento risale al 1610: “Non sia lecito in modo alcuno usare altro che ogni sorte di lesso et doi mostaccioli et questi si possano fare quello che parerà … ma che de salami et pastumi et antipasti non li sia lecito far quel tanto che parerà a Loro”; mentre la seconda, del 1702, è ulteriormente restrittiva: “Che in tutti li conviti non sia lecito di poter fare altre vivande che un sol allesso, ed un arrosto, prohibendosi tutte sorte di pastumi, e insalate sontuose, le quali debbano essere ordinarie e non cotte, et li frutti et intermezzi non possano eccedere la spesa di un grosso la libbra, eccettuato però li confetti, i quali vengono permessi vietandosi le marroncine et altre sorte di confettini comanco si proibisce il pesce di qualunque sorte eccettuato alici et assorro”. Da questi editti si evince fra l’altro l’origine del gustoso tortino di aliciotti e invidia al forno, nato per servire in un modo saporito ed invitante l’unico pesce consentito e divenuto un cavallo di battaglia delle cucina giudaica romana, oppure un’altro esempio di piatto povero ma squisito, la famosa “concia di zucchine”: le famose zucchine affettate e fritte per poi essere marinate con aglio, olio, aceto bianco e menta o basilico. La concia è stata anche offerta in assaggio durante la cena, servita sul pane come da tradizione. E De Castro ha simpaticamente ricordato anche la diatriba sulla “concia” che vede fronteggiarsi nelle famiglie ebraiche, gli appartenenti a due scuole di pensiero: quelli per cui le zucchine possono essere tagliate in orizzontale e quelli che invece le preferiscono tagliate in verticale.

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A questo punto esaurito il quadro storico culturale, in cui si colloca la tradizione della cucina Kosher, il nostro illustre relatore si è soffermato sulle regole pratiche fondamentali di questa cucina. Eccole qui elencate in estrema sintesi: per prima cosa ha ricordato la regola che impone di non mischiare mai carne e latte insieme (la carbonara kosher è infatti senza formaggio) perché il latte è legato alla vita come il sangue rappresenta invece la morte e bisogna sempre preservare e prediligere la vita alla morte; in ossequio al divieto assoluto di cibarsi di sangue poi vi è l’obbligo di macellare ritualmente gli animali, recidendo loro la giugulare e sottoponendo le carni al successivo trattamento con acqua e sale per eliminare ogni residuo; i quadrupedi che vanno consumati per la loro carne, devono essere ruminanti e con lo zoccolo spaccato; i pesci devono avere le squame e sono proibiti tutti i crostacei ed i frutti mare; i volatili non devono essere mai né rapaci né notturni. La ragione dell’attenzione a queste disposizioni può essere rintracciata sia a livello religioso che pratico l’esegesi ebraica sul kosher individua due spiegazioni una razionale ed una mistica secondo quanto ha spiegato Di Castro, il motivo razionale dietro a queste regole è fornire uno strumento di autocontrollo: nei tempi antichi infatti i banchetti erano teatro delle peggiori nefandezze e concentrare l’attenzione degli ebrei a tavola su una serie regole come quelle Kosher aiutava a mantenere quella retta condotta morale che un buon ebreo deve avere, oltre a rispettare i 613 precetti necessari per essere un Giusto.Quando si parla di cucina giudaico romanesca si parla in realtà di una cucina fatta di contaminazioni, a partire da quella tra quella ebraica e quella romana, per arrivare poi alle influenze portate nella capitale dagli ebrei che furono scacciati dalla Spagna all’inizio del 500 come il cous cous appartenente alla tradizione spagnola sefardita, per giungere in tempi più recenti agli anni ’60 e alla guerra dei sei giorni, che portò all’arrivo nella capitale di 2000 ebrei dalla Libia, che portò con sé molti piatti speziati e piccanti, tipici di quelle terre tra tutti l’ esempio più chiaro è la “Lubia” un tipico spezzatino di carne con fagioli appartenente alla tradizione ebraica tripolina. La contaminazione è quindi la costante di questa gastronomia, ed è facile notarla anche nelle famiglie, dove ormai grazie ai matrimoni “misti”, non è difficile vedere piatti di origine così diversa convivere sulla stessa tavola e assaporare ricette che tentano di volta in volta di adattare i sapori alle preferenze di ognuno. Questo è anche collegato alla diaspora degli ebrei che va avanti ininterrottamente da duemila anni il che ha influenzato ogni aspetto della cultura ebraica rendendola anche frutto dei vari contributi giunti dalle diverse parti del mondo in cui il popolo ebraico si è disperso nel suo errare.

La spiegazione mistica invece, che Sandro Di Castro ci ha illustrato, è legata alla khabbalà e alla interpretazione mistica del significato del cibo: “La parola che in ebraico dà il nome al cibo è l’anagramma della parola ebraica per angelo, da ciò si evince già il fatto che il cibo è chiaramente sin dalle sue radici linguistiche per l’ebraismo, un elemento non solo materiale ma altamente spirituale. Questo perché tutto il creato è stato fatto da Dio, pronunciando delle parole che hanno dato vita a tutto regno animale e vegetale, nel momento in cui stiamo per mangiare e pronunciamo le benedizioni, restituiamo al cibo il suo alto valore spirituale, perché benedicendolo gli rendiamo quella “vitalità spirituale” che gli aveva infuso Dio al momento della creazione, per cui ogni ebreo che si mette a tavola deve esserne consapevole”.

Inoltre Di Castro ha spiegato un’altra tradizione tipicamente giudaica: sulla tavola di ogni famiglia di religione ebraica, è come se si replicasse l’altare del Tempio di Gerusalemme, perciò prima di qualsiasi altra cosa si troverà su di essa del pane e del sale, come quello che veniva consumato ritualmente accanto ai sacrifici nel tempio. Inoltre il relatore, ha sottolineato che non a caso nella Torah tutte le regole legate al cibo sono scritte accanto alle prescrizioni che descrivono come doveva essere eretto il Tempio di Gerusalemme e l’esegesi spiega che ciò è in stretta connessione col fatto che il corpo dell’uomo è un tempio per l’ebraismo, pertanto anche quando oggi che il Tempio non esiste più ogni uomo è agli occhi di Dio un piccolo santuario e va rispettato.

Questo fatto si connette poi con un altro interessante aneddoto, che ci è stato riportato dal nostro oratore, e che racchiude tutto il senso simbolico del rapporto tra corpo, cibo e religione:

“Un sacerdote, durante un suo discorso mistico con Dio, si era lamentato con lui, perché Dio non gli aveva dato due bocche, una per pregare e una per mangiare. Dio gli aveva risposto che invece aveva fatto un’opera perfetta dando una sola bocca all’uomo, perché da essa si devono far uscire solo elementi di santità perciò, bisogna stare attenti quando si mangia, quando si prega e quando si parla del nostro prossimo”.

Infine Di Castro ha fatto nuovamente riferimento alla kabbalà sottolineando il fatto che i denti nella bocca sono 32 come i sentieri della saggezza, per cui questa saggezza deve pervadere ogni aspetto della vita di ogni uomo, ma non solo ha ricordato che 32 è il valore che la kabbalà dà anche alla parola cuore “lev” e ciò deve significare – ha concluso Di Castro – che quando siamo a tavola dobbiamo tenere il cuore aperto soprattutto per chi ha più bisogno e fare beneficenza.

(Valentina Franci/com.unica 27 novembre 2016)