Un’analisi del politologo americano Joseph Nye sul ruolo degli Stati Uniti nell’ordine mondiale dopo l’elezione del nuovo Presidente. 

Nel corso della la sua campagna elettorale il neo eletto presidente americano Donald Trump ha messo in discussione le alleanze e le istituzioni che sostengono l’ordine mondiale liberale, ma è entrato nel merito di poche politiche specifiche. Forse l’interrogativo più importante sollevato dalla sua vittoria è se questa prolungata fase di globalizzazione, cominciata alla fine della seconda guerra mondiale, si sia di fatto conclusa.

Non necessariamente. Anche se accordi commerciali come il Partenariato Trans-Pacifico e il Partenariato Transatlantico per il commercio e gli investimenti dovessero fallire e la globalizzazione economica rallentare, la tecnologia sta promuovendo una globalizzazione sul piano ecologico, politico e sociale che assume le forme del cambiamento climatico, del terrorismo transnazionale e dell’immigrazione, che piaccia a Trump oppure no. L’ordine mondiale riguarda molto più della sola economia, e gli Stati Uniti continuano a essere fondamentali per il suo mantenimento.

Noi americani tendiamo spesso a male interpretare il nostro posto nel mondo. Oscilliamo tra trionfalismo e declinismo. Dopo che i sovietici lanciarono il satellite Sputnik nel 1957, credevamo di essere in declino. Negli anni ottanta, pensavamo che i giapponesi fossero dei giganti. All’indomani della Grande Recessione del 2008, molti americani hanno erroneamente creduto che la Cina fosse diventata più potente degli Stati Uniti.

Malgrado la retorica dietro la campagna di Trump, gli Stati Uniti non sono in declino. A causa dell’immigrazione, sono l’unico grande paese sviluppato che non registrerà un forte calo demografico entro la metà del secolo, la cui dipendenza dalle importazioni di energia sta di fatto diminuendo, è all’avanguardia delle principali tecnologie (biotecnologie, nanotecnologie e tecnologie informatiche) destinate a plasmare questo secolo, e le cui università dominano le classifiche mondiali.

Sono molte le questioni importanti che affolleranno l’agenda di politica estera di Trump, ma a dominare saranno probabilmente quelle chiave, ovvero le relazioni con la Cina e la Russia, e le tensioni in Medio Oriente. Un forte apparato militare americano resta necessario, ma non è sufficiente per affrontarle tutte e tre. Mantenere l’equilibrio militare in Europa e nell’Asia orientale costituisce un’importante fonte d’influenza per l’America, ma Trump ha ragione sul fatto che cercare di controllare la politica interna di popolazioni nazionaliste in Medio Oriente è la migliore garanzia di fallimento.  

Il Medio Oriente sta vivendo una complessa serie di rivoluzioni generate dalla definizione a tavolino dei confini territoriali nel periodo post coloniale, dai conflitti legati al settarismo religioso e da un ritardo nella modernizzazione della regione descritto nei rapporti sullo sviluppo umano nel mondo arabo delle Nazioni Unite. I disordini che ne derivano potrebbero durare per decenni, e continueranno ad alimentare il terrorismo jihadista. Dopo la Rivoluzione francese l’Europa rimase in una condizione d’instabilità per ben 25 anni, e gli interventi militari ad opera di potenze esterne non fecero che peggiorare la situazione.

Tuttavia, anche con un minor volume di importazioni di energia dal Medio Oriente, gli Stati Uniti non possono voltare le spalle alla regione, e questo per una serie di motivi, tra cui gli interessi che hanno in Israele, la non proliferazione e i diritti umani. La guerra civile in Siria non è solo una catastrofe umanitaria, ma sta anche destabilizzando l’intera regione e l’Europa. Gli Usa non possono ignorare tali fatti, ma la loro dovrebbe essere una politica di contenimento tesa a influenzare i risultati esortando e rafforzando gli alleati, anziché tentando di esercitare un controllo militare diretto, che risulterebbe tanto costoso quanto controproducente.

Per contro, l’equilibrio dei poteri in Asia ben dispone la regione nei confronti degli Usa. L’ascesa della Cina a livello globale ha alimentato preoccupazioni in India, Giappone, Vietnam e altri paesi, e la sua gestione rappresenta una delle grandi sfide di politica estera di questo secolo. A tale scopo, la strategia bipartisan di “integrare ma controllare” – in base alla quale gli Usa invitarono la Cina a far parte dell’ordine mondiale liberale, mentre riconfermavano il proprio trattato di sicurezza con il Giappone – resta l’approccio giusto.

A differenza di un secolo fa, quando un’emergente Germania (che nel 1900 aveva ormai sorpassato la Gran Bretagna) alimentò quei timori che contribuirono ad accelerare la corsa verso il disastro del 1914, la Cina non sta per sorpassarci come potenza globale. Anche se le dimensioni complessive dell’economia della Cina dovessero superare quelle dell’economia americana nel 2030 o 2040, il suo reddito pro capite (che rende meglio l’idea della complessità di un’economia) resterebbe indietro. Inoltre, la Cina non eguaglierà l’hard power degli Usa in senso militare, né il loro soft power in termini di capacità di attrazione. Come Lee Kuan Yew disse una volta, finché gli Stati Uniti resteranno aperti e continueranno ad attrarre talenti da tutto il mondo, la Cina potrà fargli concorrenza, ma non prenderne il posto.

Per queste ragioni, gli Stati Uniti non hanno bisogno di una politica di contenimento della Cina. L’unico paese in grado di contenere la Cina è la Cina stessa, che lo fa fomentando i conflitti territoriali con i paesi vicini. Gli Usa devono avviare iniziative economiche nel sud-est asiatico, riaffermare la propria alleanza con il Giappone e la Corea e continuare a rafforzare i rapporti con l’India.

Infine, vi è la Russia, un paese in pieno declino, ma con un arsenale nucleare sufficiente a distruggere gli Stati Uniti, e pertanto una potenziale minaccia per l’America e altri stati. La Russia, che dipende quasi interamente dalle entrate generate dalle proprie risorse energetiche, è un’economia di tipo monocolturale, afflitta da istituzioni corrotte e problemi demografici e sanitari insormontabili. Gli interventi del presidente Vladimir Putin nei paesi vicini e in Medio Oriente, nonché i suoi attacchi informatici contro gli Usa e altri, seppure tesi a restituire grandezza alla Russia, non fanno che peggiorare le prospettive a lungo termine del paese. Nel breve periodo, però, i paesi in declino mostrano un’accresciuta tendenza ad assumersi dei rischi e per questo diventano più pericolosi – l’impero austro-ungarico nel 1914 ne è la riprova.

Questa situazione ha creato un dilemma politico. Da un lato, è importante contrastare la sfida aperta di Putin al divieto di esercitare la forza per sottrarre territori ai paesi vicini, sancito dall’ordine liberale dopo il 1945. Al contempo, però, Trump fa bene a evitare il completo isolamento di un paese con cui condividiamo interessi in ambiti quali sicurezza nucleare, non proliferazione, lotta al terrorismo, l’Artico e questioni regionali come l’Iran e l’Afghanistan. Le sanzioni finanziarie ed energetiche fungono da deterrente, ma gli Usa hanno comunque degli interessi che si possono promuovere meglio trattando con la Russia. Una nuova Guerra Fredda non gioverebbe a nessuno.

Gli Stati Uniti non sono in declino. Il primo intervento sul fronte della politica estera di Trump sarà quello di adeguare la sua retorica e rassicurare gli alleati e tutti gli altri che l’America continuerà ad avere un ruolo fattivo nell’ordine mondiale liberale.

(Joseph Nye*, project-syndicate 13 novembre 2016)

*Joseph Nye è un politologo americano, decano della John F. Kennedy School of Government presso la Harvard University.