La strategia degli Stati Uniti in Medio Oriente e il protagonismo della Russia di Putin. Un’analisi del direttore della Stampa Maurizio Molinari a pochi giorni dalla fine della presidenza di Barack Obama.

Il discorso del Cairo, l’accordo sul nucleare iraniano, le liti con gli alleati arabo-israeliani, la genesi del Califfato e l’ecatombe siriana descrivono l’eredità di Barack Obama in Medio Oriente ovvero un indebolimento strategico degli Stati Uniti che ha consentito alla Russia di Vladimir Putin di tornare ad essere protagonista nello scacchiere da cui venne di fatto espulsa dalla Guerra del Golfo del 1991 contro l’Iraq di Saddam Hussein.

La volontà di cambiare radicalmente l’approccio dell’America al Medio Oriente ha segnato l’amministrazione Obama sin dall’inizio: il discorso del Cairo del 2009 sull’apertura all’Islam, i messaggi segreti all’ayatollah iraniano Ali Khamenei, la scelta di non esprimere sostegno per le proteste popolari dell’ “Onda Verde” a Teheran e l’approccio aspro tanto a Riad come a Gerusalemme hanno segnato subito un evidente cambio di marcia rispetto ai predecessori George W. Bush e Bill Clinton.

La volontà di cambiare radicalmente l’approccio dell’America al Medio Oriente ha segnato l’amministrazione Obama sin dall’inizio: il discorso del Cairo del 2009 sull’apertura all’Islam, i messaggi segreti all’ayatollah iraniano Ali Khamenei, la scelta di non esprimere sostegno per le proteste popolari dell’ “Onda Verde” a Teheran e l’approccio aspro tanto a Riad come a Gerusalemme hanno segnato subito un evidente cambio di marcia rispetto ai predecessori George W. Bush e Bill Clinton. Tale svolta è culminata nel 2015 con l’accordo di Vienna sul programma nucleare di Teheran che ha trasformato l’Iran in un interlocutore strategico di Washington.

La scommessa di Obama era di riconciliarsi con il proprio avversario storico nella regione per tentare di comporre le crisi più roventi: dal braccio di ferro con l’Arabia Saudita per l’egemonia nel Golfo alla guerra di attrito in Libano fra Hezbollah e Israele. Ma tale scelta si è scontrata con la dinamica interna al mondo arabo-musulmano che ha portato, dal 2011, all’implosione di più Stati, innescando un domino di colpi di mano, cambiamenti di regime e rivoluzioni. All’inizio, nel febbraio 2011, Obama ha deciso di affrontare tali evoluzioni intervenendo in Libia, pur con la formula di “guidare da dietro” le operazioni delle Nato, mentre nel 2013 in Siria ha optato per la strada opposta, evitando qualsiasi coinvolgimento diretto.

Il doppio fallimento dimostra che l’amministrazione Obama, distratta dall’apertura a Teheran, è stata colta di sorpresa dall’implosione degli Stati arabi e non è ancora riuscita a darsi una strategia efficace per affrontarla, mentre a livello strategico a guadagnare spazio è stata la Russia di Vladimir Putin.

Ma entrambe le scelte hanno avuto esiti controproducenti perché in Libia il rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi ha portato a una guerra civile endemica mentre in Siria il mancato rovesciamento di Bashar Assad ha portato a una guerra civile ancor più sanguinosa. Il doppio fallimento dimostra che l’amministrazione Obama, distratta dall’apertura a Teheran, è stata colta di sorpresa dall’implosione degli Stati arabi e non è ancora riuscita a darsi una strategia efficace per affrontarla. Le conseguenze sono lampanti: sul terreno si sono imposti clan, tribù e gruppi terroristi di matrice jihadista – il più pericoloso dei quali è il Califfato dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi – mentre a livello strategico a guadagnare spazio è stata la Russia di Vladimir Putin riuscendo a insediarsi militarmente in Siria, diventando interlocutore privilegiato tanto degli avversari di Washington, come l’Iran, che dei suoi alleati, dagli Emirati Arabi all’Arabia Saudita fino a Israele.

E, come se non bastasse, tali smacchi strategici si accompagnano a una strage di civili in Siria che supera, per le stime dell’Onu, le 300 mila anime. Se il genocidio in Ruanda nel 1994 macchiò la presidenza di Bill Clinton, la tragedia umana, di proporzioni maggiori, che si consuma in Siria macchia l’eredità di Barack Obama.

Ecco perché chiunque sarà il nuovo presidente Usa si troverà davanti a un bivio: intraprendere la difficile riconquista del ruolo di potenza-chiave in Medio Oriente oppure liquidare in fretta ciò che resta dell’influenza regionale nata con le intuizioni di Harry Truman, cresciuta grazie alla realpolitik di Henry Kissinger e arrivata con George Bush padre, nel 1991, a imporsi fino ad espellere l’allora rivale Unione Sovietica.

(Maurizio Molinari, Origami/La Stampa 20 ottobre 2016)