Il ricordo di un grande campione e in un docufilm (Once Brothers) il racconto di un’amicizia sullo sfondo delle macerie di una guerra fratricida

Sono trascorsi trent’anni esatti da quando la giovane vita di Drazen Petrovic rimase spezzata per sempre la sera del 7 giugno 1993, all’età di soli 29 anni. Quel giorno pioveva a dirotto in Baviera e la sua Golf guidata dalla fidanzata Klara andò a schiantarsi in autostrada contro un camion che aveva appena cominciato a sbandare. Quella fine ancora in giovane età contribuisce ad avvolgere nel mito la sua figura di eroe sportivo tragico e malinconico, forse il più grande talento che abbia mai espresso il basket europeo. 

Nato il 22 ottobre 1964 a Sebenico (in Croazia, allora ancora nella Jugoslavia unita), per lui gli appellativi si sprecano, ma per tutti rimarrà per sempre il Mozart dei canestri: per ciò che è stato capace di esprimere sul parquet ha rappresentato forse il compendio del cestista universale, in grado di eseguire tutti i movimenti fondamentali e le tonalità di una sinfonia classica con una perfezione tecnico-stilistica inarrivabile ai comuni mortali.

Un talento allo stato puro che tuttavia non era affatto innato, baciato dagli dei. Era molto alto, d’accordo, ma scoprirà il basket quasi per caso, grazie soprattutto al suo fratello maggiore Aza. Da piccolo soffriva per via di una malformazione alla colonna vertebrale e così quando iniziò a frequentare i campi di basket nessuno osò immaginare che un giorno sarebbe potuto emergere fino ai massimi livelli e assurgere alla celebrità anche per la precisione chirurgica nel tiro. Qualche suo compagno infatti a quei tempi gli aveva affibbiato il nomignolo di “pietraio”, che in genere non si attribuisce a chi è dotato di una mano particolarmente calda.

Ma ben presto il basket sarebbe diventato per lui qualcosa di più che una semplice passione. Di carattere ombroso e taciturno, il suo mondo era tutto racchiuso nello spazio del rettangolo di gioco. Il caso volle che potesse disporre della palestra della scuola a pochi passi da casa tutta per sé e così ogni santo giorno, a partire dalle sei del mattino, Drazen raggiungeva quel luogo per lui magico e iniziava con cura maniacale a dare libero sfogo al suo istinto. Era una magnifica e spietata ossessione la sua: provava per ore il tiro da tutte le posizioni, centinaia, migliaia di volte; cercava di affinare e ripetere all’infinito quei movimenti e gesti tecnici che vedeva compiere dai grandi campioni assistendo in tv ai loro match. Si può affermare che fosse posseduto dal demone del basket, quasi volesse esorcizzare e placare le proprie angosce interiori. Sono nato per il basket. Il mio desiderio è sempre quello di essere il migliore e per diventarlo sono disposto a tutto” – ha spiegato un giorno in un’intervista. Grazie a questa feroce determinazione sarà in grado di bruciare le tappe e a soli 15 anni farà il suo esordio in prima squadra.

Da allora sarà tutto un susseguirsi di successi fino alla conquista della maglia della nazionale jugoslava, che con lui diventerà quella squadra da sogno che gli appassionati di basket ultra quarantenni ben ricordano. Un quintetto formidabile che ha annoverato, oltre al Mozart croato, autentici assi del calibro di Toni Kukoc, Dino Radja, Vlade Divac e Dzarko Paspalj: tre croati e due serbi (Vlade e Dzarko) che finiranno tutti per giocare nell’Nba.

Il basket in quegli anni stava attraversando forse il periodo più seducente della propria storia. Un periodo storico in cui la tecnica e l’estro del singolo avevano un peso fondamentale e maggiore rispetto alla potenza e alla forza fisica. E quella squadra da sogno paradossalmente raggiungerà l’apice della gloria proprio nel momento in cui la nazione jugoslava stava cominciando a sgretolarsi sotto i colpi letali dei nazionalismi. Un team ben assortito in cui, a differenza di quel che accadeva nel resto della nazione, non contavano più di tanto le questioni etniche e in cui fiorivano anche amicizie importanti e in apparenza solidissime come quella tra lo stesso Drazen e Vlade Divac: due personalità oltretutto molto lontane per indole e visione della vita.

Da una parte il serbo, sempre allegro e gioviale, gran trascinatore e dotato di una capacità innata nel tenere sempre alto il morale della squadra. Dall’altra il croato, introverso e taciturno, per cui il basket era la sola ragione di vita. Eppure i due legarono immediatamente. Erano come fratelli e tra di loro vi era stima profonda nonostante i loro caratteri fossero agli antipodi.

Dopo qualche anno ecco che in un clima da guerra civile strisciante anche quello che sembrava un legame di sangue, indistruttibile, finì per andare in frantumi. Il motivo scatenante di quella rottura è stato un gesto istintivo di Divac nel corso dei festeggiamenti per la vittoria ai campionati mondiali del 1990 in Argentina: un tifoso fece irruzione sul parquet sventolando la bandiera croata. Divac lo raggiunse infuriato e gliela strappò di mano con forza.

Da quel giorno niente sarà come prima, Drazen non riuscirà mai più a perdonare Vlade nonostante i vani tentativi dell’amico di ricucire. I due appartenevano a due paesi ormai in guerra fra loro.

Divac, a distanza di molti anni ricorda oggi che la festa per la vittoria riguardava tutta la Jugoslavia e non si è mai rassegnato alla fine di un’amicizia provocata da un banale equivoco che in seguito non riuscirà mai più a chiarire. “Non c’entravano per niente – aggiunge – i simboli delle sei repubbliche che componevano il nostro paese”. Da allora ha sempre vissuto con il rimpianto – divenuto rimorso dopo la tragica fine di Drazen – per non essere stato capace di ricomporre il forte legame di amicizia che lo aveva unito all’amico croato. “È davvero incredibile come ci vogliano anni per costruire e cementare un’amicizia – commenterà sconsolato Vlade – e poi solo pochi secondi per farla andare in fumo”.

E proprio il tema dell’amicizia tra i due è al centro di Once Brothers, uno splendido documentario ispirato dallo stesso Divac e prodotto da ESPN, riproposto di recente anche su Sky (qui il trailer in versione inglese) a cura di Federico Buffa

Il film è tante cose insieme. È anzitutto un doveroso omaggio alla memoria di un grandissimo campione ma c’è molto di più perché sullo sfondo della storia aleggia lo spettro di una guerra fratricida stupida. Una guerra che porta con sé non solo morte e distruzione ma trascina nel baratro anche i sogni dei giovani, i legami di amore e di amicizia. Nelle scene finali ci sono anche le immagini del funerale a Zagabria, quando oltre centomila persone accorsero a salutare Dražen per l’ultima volta e, tra lo strazio della famiglia e dei suoi compagni croati, un signore si avvicinò alla madre in lacrime: “signora, lei lo ha messo al Mondo, ma ora Drazo è di tutti noi”.

Per Vlade Divac il film è come una sorta di redenzione, un viaggio a ritroso nei luoghi cari al vecchio compagno di squadra. Lo vediamo mentre cammina in mezzo alla neve, calpesta il parquet della palestra dove l’amico si allenava ogni giorno, intervista gli amici e i compagni di squadra, rende omaggio alla sua tomba. E poi l’incontro con il fratello maggiore Asa, cestista anche lui e noto anche in Italia per aver militato nella Scavolini Pesaro, con il quale inizia a sfogliare l’album dei ricordi. Quindi soprattutto la scena struggente dell’abbraccio con la madre di Drazen a cui dona un mazzo di fiori. Un abbraccio che per lui è molto di più che una riconciliazione postuma. Da non perdere.

Sebastiano Catte, com.unica 7 giugno 2023