Il dettaglio conta. Tra il 1939 e il 1940 Julien Green, il romanziere americano che scriveva in francese (aveva scelto la Francia come sua patria culturale, pur non avendone chiesto la nazionalità, lui che prenderà il posto di Mauriac nel gotha dell’intellighenzia d’Oltralpe, l’Acamedie Française) sospende la scrittura del suo Diario, che poi uscirà in 16 volumi, tradotto anche in italiano.

Prefigurazione di qualcosa di terribile da non lasciare ai posteri? Disgusto per la cronaca che il mondo sta vivendo? Incapacità di trasmettere su un foglio il tormento interiore di chi, pacifista, sente il male della contemporaneità dilagare fino a sommergere le proprie convinzioni? Sta di fatto che oggi si può sapere di più di quel lasso di tempo e di storia, breve ma decisivo, collocato all’inizio della seconda guerra mondiale con l’espandersi del nazismo oltre i confini germanici e dell’Europa centrale.

È infatti possibile conoscere come l’autore di Adriana Mesurat ha vissuto l’incipit tragico del conflitto. Lui che, appena diciottenne, era stato nei servizi ausiliari (ambulanze) durante la prima guerra mondiale in Veneto. È merito delle Edizioni Cliché, che rendono disponibile in italiano questo La fine di un mondo. Giugno 1940 (pagine 140, euro 12,00; da oggi in libreria), nel quale Green, con una scrittura apparentemente dimessa e feriale, lascia tracce importanti di quella che è la sua poetica, tesa a un’autentica drammaticità, all’indagine del male, al confronto col secolo oscuro in cui la sorte lo aveva posto. Vivendo quello che l’amico Jacques Maritain (colui che lo ricondusse alla fede, dopo la giovanile conversione al cattolicesimo) gli aveva scritto: «Voi date il vostro sangue ogni minuto».

Questa, in sintesi, è la vicenda narrata: Green è in Francia quando le notizie del confronto bellico fra truppe francesi e tedesche fanno intuire che il nazismo non verrà fermato e dilagherà. Lascia Parigi e arriva a Pau, sui Pirenei. Ma invece che rifugiarsi subito in Spagna, per poi accedere in Portogallo e lasciare il Vecchio Continente per l’America, l’approdo sicuro dell’epoca, si imbarca nel tentativo di far espatriare anche l’amico Robert de Saint Jean.

E il racconto è tutto una suspance sul filo del dubbio: ce la faranno i nostri a superare i posti di blocco, i controlli, la frontiera evitando di trovarsi intrappolati nelle maglie dell’occupazione hitleriana? Il lieto fine della cronaca potrebbe sembrare un po’ ingenuo e fa- re a pugni con i drammi della narrativa a cui Green ci ha abituati. Ma ricordiamoci che qui siamo nella cronaca della storia, quella piccola degli individui e quella dei grandi avvenimenti fra loro indiscutibilmente legati.

Ed è proprio sulla sua interpretazione, sull’analisi di quel che succede, sul raccordo tra i fatti e il loro valore spirituale che La fine di un mondo offre intuizioni che danno ragione della grandezza di Green. Fanno impressione i giudizi taglienti che Green, americano innamorato della cultura francese, lancia sulla propria patria adottiva, e in generale sull’Europa, sulla loro incapacità nello smorzare il fenomeno Hitler: «In uno dei quaderni del mio diario, probabilmente perduto, scrivevo che il 3 settembre 1939 [inizio dell’occupazione tedesca in Polonia, ndr] l’Europa si era puntata una pistola alla tempia; ebbene, il 10 maggio 1940 [la Germania invade Belgio, Olanda e Lussemburgo, ndr] aveva premuto il grilletto. Tutto è finito».

«L’Anschluss, i Sudeti… l’Europa stava diventando a sua volta il malato del mondo, e aggiungerei: malato nell’anima». «Passavo parte della notte a camminare su e giù per la camera interrogandomi sul significato di quanto stava accadendo, e cercando un senso riposto nei prodigiosi eventi di cui la radio ci riportava echi sempre più allarmanti. […] Come da ragazzo, mi interrogavo sulla realtà della storia e sulle proiezioni dei più segreti sentimenti in ciò che gli uomini fanno della propria vita e del mondo».

Ed eccola qui la presa d’atto anticipata di cosa sarebbe stata la seconda guerra mondia-le: «Tutto mi parve talmente tragico e squallido che all’improvviso avvertii qualcosa di inesprimibile: una sorta di generale abbrutimento del genere umano si stava verificando quasi sotto i miei occhi. […] Eravamo stati derubati, la storia si stava prendendo gioco di noi». E ilj’accuse di Green si fa spietato nei riguardi delle élite, che lui conosceva bene, ovvero «il cosiddetto bel mondo, tutti quelli che avevano l’abitudine di dare feste e ricevimenti e gli assidui frequentatori dei salotti, un piccolo universo bizzarro in cui il frivolo e l’inutile si mescolano al talento».

Nel testo sono poi numerosi gli accenni alle amicizie personali e ai sodalizi letterari, passati e presenti, propri di Green: si può conoscere il telegramma con cui André Gide comunica che «Io resto e resto e resto», e non lascia la Francia per la ben più sicura Inghilterra. Una volta arrivato negli Usa rinnova l’amicizia e la stima per Gide «e una stima profonda nacque per Camus. Il resto, cioè gli altri, l’ho dimenticato».

Lorenzo Fazzini, AVVENIRE, 29 settembre 2016