Il 24 e 25 settembre al Castello Sforzesco di Milano si terrà il Festival #iocondivido, due giorni di eventi e incontri interamente dedicati alla Sharing Economy.

La Sharing Economy, il Consumo Collaborativo. L’economia condivisa è già entrata nella nostra vita con il carpooling, il bike sharing, lo scambio on-line degli abiti usati, lo scambio dei servizi, il coworking, la banca del tempo, le esperienze di home eating e di ospitalità, il peer-to-peer nel marketing e nella comunicazione, il prestito sociale, la condivisione di biglietti evento, il baratto…

I modi del consumo collaborativo sono infiniti, anche digitali, a volte fondati sul passaparola, assolutamente alternativi al consumismo, con un basso impatto ambientale, un deciso risparmio economico e una sostanziale riduzione degli sprechi grazie allo scambio dei prodotti, ai prestiti e agli acquisti condivisi. Da non dimenticare la fondamentale interazione sociale che ne deriva, con un aumento della soddisfazione e della felicità personali. E’uno stile di vita e potrebbe diventare l’unica economia possibile, a dispetto di una crisi difficile da affrontare e da superare. La formula è semplice: se si sta intraprendendo un viaggio o comunque ci si posta con una certa frequenza, si può ricorrere al carpooling, trovare persone che fanno lo stesso tragitto e mettono a disposizione il proprio veicolo in cambio di una modesta somma di denaro per condividere le spese. Ottimo per la riduzione del traffico cittadino è il bike sharing, un servizio di biciclette pubbliche, utili per lo spostamento in città, al quale si può accedere in cambio di una quota associativa, e nel rispetto di una tariffa oraria, con l’obbligo di riconsegnare le bici in un qualsiasi punto di distribuzione. Interessanti sono i soggiorni presso famiglie host, che affittano degli spazi nella loro abitazione a tassi veramente economici: svariati servizi online permettono di trovare un “local friend”, un amico locale, che condivide con l’ospite le proprie conoscenze del posto e il proprio stile di vita, lanciando un nuovo tipo di turismo, detto anche “turismo esperienziale”. Per i professionisti invece che sono stanchi di lavorare da casa, per gli imprenditori nomadi, per chi non ha un ufficio, per i freelance che svolgono anche un altro lavoro, il coworking è la soluzione giusta, nell’ottica di un lavoro fondato sulla condivisione di uno spazio comune (ma anche delle spese per l’affitto, il computer, il collaboratore), sebbene spesso non si appartenga alla stessa organizzazione, con uno sguardo più attento alla cooperazione che al profitto. Il consumo collaborativo in sostanza non è solo reinventare quello che la gente consuma ma anche il modo in cui si consuma.

Il termine Collaborative Consumption comparve per la prima volta nel 1978 in un articolo di Marcus Felson e Joe L. Spaeth “Community Structure and Collaborative Consumption: A routine activity approach”, pubblicato dalla rivista American Behavioral Scientist. Il termine è stato rilanciato nel 2007 da Ray Algar, un consulente di gestione in un articolo, “Il consumo collaborativo nel tempo libero”. Nel 2010 Rachel Botsman e Roo Rogers approfondirono il concetto in “Quello che è mio è tuo: la nascita del consumo collaborativo”, presentando quest’ultimo come “una nuova ‘grande idea’ socio-economica che promette una rivoluzione nel nostro modo di consumare”. Botsman nella sua introduzione lo descrisse come la “valida creazione di risorse condivise e aperte in modo che ci fosse il giusto equilibrio tra l’interesse personale e il bene più grande della comunità“. Il concetto di baratto, di riutilizzo e la condivisione pubblica di prodotti e di servizi non è nuovo. Per decenni, molti enti pubblici e privati hanno utilizzato qualche variante della condivisione: librerie, lavanderie, centri di riutilizzo privati, start up per l’Avviamento Industriale e l’Esercito della Salvezza. Uno dei sistemi del consumo collaborativo è basato sui beni usati o posseduti in precedenza, che vengono trasmessi da una persona che non li vuole a qualcuno che ne ha bisogno. Questa è un’altra alternativa al più comune ridurre, riutilizzare, riciclare, riparare, nell’accezione che la domanda dei consumi si è trasformata per rispondere alle nuove esigenze: la velocità della condivisione ottimizzata dalla Rete, il ritorno a un forte senso della comunità, la crisi, muovono verso la condivisione, l’affitto, il noleggio, lo scambio, il prestito e spingono chi ha competenze artigianali, tecniche e scientifiche a mettere a disposizione i propri prodotti e servizi attraverso piattaforme internet create appositamente.

Certo, non si tratta di soppiantare l’economia tradizionale, ma di introdurre sistemi complementari affidati a settori pubblici e privati che possano portare benefici sociali ed economici anche importanti, incidendo soprattutto sulla capacità di creare occupazione, in grado di formulare interventi contro gli sprechi energetici e i danni ambientali. Naturalmente nel nostro Paese si ha bisogno di una legge sulla Sharing Economy, per disciplinarla, per tutelare la sicurezza dei dati, per assicurare una corretta concorrenza sui network. Un fenomeno indiscutibilmente in forte espansione e come sostiene l’economista statunitense Jeremy Rifkin, “l’unica soluzione che può, in breve tempo, salvare una specie, quella umana, che altrimenti potrebbe non vedere la fine del secolo”. Al di là delle visioni catastrofiche, un dato assolutamente inconfutabile è che si è di fronte a una nuova rivoluzione economica.

(Nadia Loreti, com.unica 18 settembre 2016)