Il nuovo libro, l’attrazione per il mistero e per la fuga. Intervista di Antonio Monda allo scrittore per Repubblica.

Il nuovo romanzo di Jonathan Safran Foer è potente e diretto come il suo titolo: “Eccomi”, in originale “Here I am”. Il libro, in uscita in Italia per Guanda con una preziosa traduzione di Irene Abigail Piccinini, rappresenta il ritorno alla narrativa dello scrittore trentanovenne, a undici anni da “Molto forte, incredibilmente vicino”, che attraverso il dolore di un bambino di nove anni affrontava per la prima volta o quasi in letteratura il dramma dell’11 settembre. E a tredici dal debutto “Ogni cosa è illuminata”, che ne consacrò il talento originale e divenne un film drammatico e poetico con la regia di Liev Schreiber. Un ritorno forte, che mescola tradizione e sperimentazione, dedicato all’amore e alla sua dissoluzione. In questi anni senza romanzi non sono mancati momenti di creatività, a cominciare dalla Hagaddah a quattro mani con Nathan Englander. E ancora il saggio Eating Animals, nel quale professò pubblicamente la sua scelta “vegetariana ebraica”, il libretto per l’opera Seven attempted escapes from silence e il progetto artistico Tree of Codes. Tutte opere interessanti ed eclettiche, che tuttavia hanno fatto crescere l’attesa per il ritorno al romanzo, accentuate dopo l’improvviso annullamento di Escape from Children’s Hospital, annunciato nel 2014 e tuttora in lavorazione.

Secondo il racconto biblico «eccomi» è quanto rispose Abramo a Dio che gli chiedeva di sacrificare il proprio figlio. Una scelta di titolo evocativa, che caratterizza il tema di fondo di questo romanzo ambizioso e pieno di temi forti: il rapporto tra genitori e figli e la relazione tra la fallacia di una concezione materialista e il mistero di una possibilità trascendente.

Tutto ruota intorno alla famiglia Bloch, un microcosmo di personaggi della classe medio-alta, in cui convivono e si scontrano attitudini diverse, dando l’opportunità a Foer di parlare di ebraismo e xenofobia, incomunicabilità e solitudine esistenziale, rapporto tra ebrei americani e Israele e fede all’interno di un mondo secolarizzato. «Sostengo che per un romanziere, e, in genere per un artista, ogni tema sia degno di essere trattato» racconta nella sua nuova casa di Brooklyn, «ma so bene che ne esistono di imprescindibili e urgenti».

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Perché oggi parla di fede?

«Perché si tratta appunto di un tema eterno, sul quale nessuno potrà mai dare la risposta definitiva. Tuttavia non mi riferisco soltanto alla crisi della spiritualità: parlo ad esempio anche di matrimonio, e dei rapporti che vorremmo eterni».

Quanto c’è di personale in quanto descrive?

«Non conosco uno scrittore degno di questo nome che non parli di temi che lo coinvolgano intimamente. Il mio compito è quello di scrivere al meglio delle mie possibilità e di raggiungere un risultato che possa coinvolgere ogni lettore ».

Dal romanzo si deduce che lei sente il fascino del rito.

«Non lo nego affatto, al punto da chiedermi, se nel rito, creato dagli uomini, esista un inconsapevole riflesso di qualcosa di più grande. E affermo ciò tentando di astrarmi dai miei personaggi».

Lei scrive: “Tutte le mattine felici si assomigliano, esattamente come tutte le mattine infelici”.

«È una rivisitazione e un omaggio a Tolstoj, che in Anna Karenina ha scritto uno degli incipit più belli e celebri di tutti i tempi: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo”. Nel caso dei miei personaggi sembra che anche la felicità sia omologata, e questo mi riporta a pensare al rito e al fascino della ripetizione ».

In un altro passaggio del suo libro si dice: “Dopo cena, compivano un rituale di cui nessuno ricordava le origini e di cui nessuno metteva in dubbio il significato: chiudevano gli occhi e camminavano per la casa”.

«C’è qualcosa di ambivalente nel rapporto con il rito, e ha a che fare con la fragilità umana: il modo con cui ci rapportiamo con qualcosa che nasce dal mistero e rispetto a cui si può avere soltanto un atteggiamento di fede».

Ma lei è credente?

«Non lo so: credo a momenti, e questo per qualcuno fa di me un credente, per altri un agnostico. Voglio aggiungere che ho questo tipo di incertezze anche riguardo ad altre cose, come la bellezza, o in generale, l’arte».

Irv, uno dei personaggi più riusciti, ritiene che il mondo odi sempre e comunque gli ebrei: lo pensa anche lei?

«Non ho una risposta precisa, ma solo l’auspicio che non sia così. Mi limito a dire che fin quando gli ebrei esisteranno ci sarà una parte del mondo che li odierà. Ma questo succede anche per i rom, per i neri e altre minoranze. E a volte penso che sia valido anche per le donne. Irv è un personaggio che all’inizio è esuberante, poi alcune sue caratteristiche rivelano elementi tragicamente realistici, mi auguro veri».

Nel libro c’è un costante rapporto tra eros e religione: “Ogni mattina, prima di alzarsi dal letto, Jacob baciava Julia in mezzo alle gambe: non con un intento sessuale (il rituale esigeva che il bacio non portasse mai a nulla), ma religioso”.

«Si tratta di due forze trainanti e imprescindibili dell’universo. E sono molto più intrecciate di quanto si possa pensare».

C’è un passaggio in cui descrive dei ragazzini che parlano di masturbazione e sesso orale. Poi scrive: “Se Dio esisteva e giudicava, avrebbe perdonato tutto a questi ragazzini, sapendo che dentro di loro erano alla mercé di forze esterne a loro e che anch’essi erano fatti a Sua immagine e somiglianza”.

«Oltre al rapporto con il mistero, di cui ho parlato, sono estremamente interessato a ciò che è considerato vergogna e tabù. E alla vulnerabilità di ogni essere umano».

In due titoli tra i suoi progetti editoriali compare il termine escape, fuga.

«I libri sono viaggi: traumatici e spesso irrisolti. Lo stesso si può dire dell’esistenza. In questo libro affronto, cercando di non fuggire, il conflitto tra identità e assenza di identità».

Il romanzo è il più lungo che abbia mai scritto: si assiste a una tendenza mondiale verso libri sempre più lunghi. Ritiene sia una risposta alla cultura di twitter?

«Credo che ogni scrittore scriva quello che senta, rispondendo in primo luogo a una necessità: la lunghezza è conseguente. Dubito che l’eventuale fastidio rispetto alla cultura di twitter sia primaria rispetto ad altre necessità espressive. Nel caso di quest’ultimo libro mi auguro solo che non sembri più lungo di quanto sia necessario ».

Perché pensa che “non avere una scelta è una scelta”?

«È quello che si pensa nei momenti di crisi, a volte ripensando alla fragilità e al vuoto di alcune prese di posizione».

(Antonio Monda, La Repubblica, 21 agosto 2016)