L’inviato di guerra della “Stampa” torna in Siria nei luoghi dove fu sequestrato il 9 aprile 2013. Si seppe del suo rapimento solo due mesi dopo, quando fu diffusa la notizia che era ancora vivo. Venne infine liberato l’8 settembre 2013, dopo 5 mesi di sequestro, grazie ad un intervento dello Stato Italiano.

Dovrei parlare con loro, a lungo. Cinque mesi in Siria sono gonfi di tante cose, soprattutto se loro hanno un fucile e tu nulla, solo la tenue corazza di speranza del sequestrato. Già. Non posso farlo. Perché sono morti.

I miei rapitori di tre anni fa, sono morti. Ora lo so, ufficialmente, senza dubbi: ne ho visto le foto. Uccisi, uno ad uno, in uno dei bastioni della ribellione intorno a Damasco, Deir al Asafir, la città degli uccelli. Ci sono alberi e frutteti in quel quartiere, una volta prima della guerra sentivi gli uccelli cantare.

Nessun uomo è abituato alla morte. A nessuna morte che lo tocca. Vi è nella morte un residuo di mistero tale che ogni uomo rimane colpito, toccato. Ho visto morire uomini, in Siria soprattutto. Io ho fatto la pelle dura, io sono abituato. Ci si abitua? No, non ci si abitua. Affatto. Perché la morte carnale, il laceramento del corpo è una disgrazia, è una miseria. E non vi è uomo che non ne abbia sentito il colpo. Perché il corpo si difende, il corpo si rivolta, non vuole saperne niente della morte. Un istinto profondo lo avverte, un segreto istinto organico, che si tratta proprio di morire, allora si ribella, il corpo.

Tempo cancellato

Guardo questi cadaveri fissati per sempre, e i tre anni da allora, da quando li ho visti vivi e arroganti e ghignanti nell’esercizio del Male, diventano niente. Il bene e il male dovrebbero riequilibrarsi sennonché il centro di gravità è collocato in basso, molto in basso. O meglio mi accorgo ora che si sovrappongo l’uno all’altro senza mescolarsi come due liquidi di diversa entità.

Forse in un commissariato o in una caserma sarebbe diverso. Le procedure burocratiche, l’indifferenza di poliziotti o soldati, pratiche, nomi, indifferenza. Un fascicolo di polizia. Qui dove sono ora, no. Si ripete che non bisogna cercare di capire, di sapere dopo che si attraversano storie così. Mio Dio, eppure sono venuto qui proprio per questo.

Non è paura. Sono venuto a Beirut inseguendo una notizia: gli uomini di Hezbollah, che combatte in Siria a fianco dei soldati di Bashar Assad, hanno ucciso i tuoi sequestratori. Non somiglia al timore, piuttosto a un avvertimento dell’istinto. Quando mi sono seduto davanti a questo capo della sicurezza di Hezbollah che ha partecipato alla operazione a Damasco ho cercato di fermare la mia attenzione, di raccogliermi come per un esame di coscienza. Ma quanto ho visto con quello sguardo interiore di solito così calmo, così penetrante che trascura il particolare e va subito all’essenziale, non è la mia coscienza. Adesso sembra scivolare sulla superficie di un’altra coscienza, sino ad ora per me sconosciuta: uno specchio torbido dove all’improvviso ho creduto di veder sorgere visi. Visi ritrovati, dimenticati.  

Ho lasciato dietro di me Beirut con le sue montagne alte, quasi gonfie sul mare, e zone verdi e paesi a strati come morene di ghiaia. Sotto, spinti come un battaglione di assalto, serrati, i grattacieli della città e il suo falso moderno già con la tabe edilizia delle case che non hanno avuto neppure il tempo di farsi il nido e sono vecchie.

Il gemito dei sepolti vivi

Pensavo che questa ricerca fosse solo mia, egoistica, che non serva nulla a chi non l’ha vissuta. Poi ho visto i siriani. Giovani donne a tutti i semafori e agli angoli delle strade, che chiedevano l’elemosina esibendo neonati tenuti in braccio come oggetti, come cose in offerta. Il pianto di un popolo, un pianto che non somiglia a quello di nessun altro: basta averlo inteso una sola volta. Non un pianto: un inno, una preghiera. C’è di tutto in esso, come si usa dire: il gemito dei sepolti vivi sotto le macerie delle città, il grido delle donne violate, i pianti dei bimbi rimasti soli, lo sguardo rassegnato del profugo. Questa miseria che ha dimenticato persino il suo nome dopo cinque anni, che non cerca più, non ragiona più e posa dove capita la sua faccia stremata, è mia e nostra. In questa piccola storia di rapiti e di banditi si comprendono gli abissi di questa falsa rivoluzione, i suoi paradossi e perfino il suo squallore.

Lo scambio

Sono nella Bekaa, un feudo di Hezbollah. L’uomo che sta davanti a me indossa una divisa mimetica e sotto, la maglietta della nazionale libanese di calcio. Bruscamente ha preso la mia mano nella sua, una mano che stringe subito, senza tastare, dura, imperiosa, che punge con un grosso anello in metallo. Mi osserva di traverso senza averne l’aria, mi sembra di vedere in fondo al suo sguardo un po’ di tenerezza, una specie di inquietudine, di ansietà. Io ho le mie prove, il ricordo dei volti, nomi di battaglia, le cose che i jihadisti mi raccontarono di sé in quei cinque mesi, lui ha le sue. A me costa molto parlarne. Lui invece tacerà sempre una parte delle sue e sotto la sua burbera schiettezza, qualunque cosa succeda, resterà impenetrabile.

«Sono qui per sapere: in fondo la tappa finale o solo un nuovo inizio».

Ha riflettuto un momento e i suoi tratti si sono induriti come se si attendesse da me, e da se stesso, forse dalla sua coscienza una obiezione, una smentita, non so che cosa. Poi ha preso un grosso fascicolo dalla copertina rossa, molto usurato, come se fosse passato per mille mani e mi ha allungato un pacco di fotografie.

«Ecco, guarda sono loro. Ora non possono più fare del male a nessuno. Il loro errore è stato sequestrare un prete libanese, il vescovo ha chiesto aiuto ad Hezbollah, sapevano chi erano e dove erano, li abbiamo trovati e uccisi. Uno è sopravvissuto, ha confessato quanto ha confessato: che a Yabrud avevano tenuto in ostaggio due stranieri, un italiano, e tutto il resto. Il prete, come te, è vivo».

Adesso sono qui, faccio scorrere una dopo l’altra queste foto di morti, straziati, insostenibili nel loro incorreggibile orrore, come se cercassi di animarli in una sequenza delle antiche lampade magiche. Sono pieno di uno smarrimento quasi assoluto. Mi pare di nuotare nel buio come in un’acqua pigra e lenta che scorre senza meta. Giro piano piano su me stesso in questa tenebra senza appigli. Sono cosciente solo del mio sguardo.

Sì, questo è innegabilmente il volto di quello che si faceva chiamare Abdallah, è il suo naso a punta quello che sporge ora rigido e verdastro dalla piccola pianura della sua faccia devastata, è così vicino ai miei occhi che il mio respiro arriva alla sua pelle smorta. Più vicino di quando mi aveva puntato la pistola alla tempia per un falsa esecuzione. Allora non avevo prestato attenzione alla sua bocca, una bocca fine, sottile, nei cui angoli fortemente stretti c’è anche un dolore così vivo che credevo di essermi sbagliato; quella bocca sembra trattenere ancora con violenza gli urli di dolore per non sgorgare come in un rosso zampillo che avrebbe sommerso il mondo.

«Quello si faceva chiamare Abu Qutada, era uno importante, un capo. Era salito di grado quando la banda aveva deciso di specializzarsi in sequestri, siriani stranieri soldati. Lavoravano un po’ in proprio, un po’ su commissione, per tutte le bande dei ribelli che avevano bisogno di ostaggi».

Una storia come altre

La voce dell’uomo di Hezbollah è dura, stizzosa. Ho capito che per lui questa è una storia come mille altre di questi cinque anni di guerra: combattiamo in Siria, eliminiamo i terroristi, la guerra durerà ancora a lungo. Perché dovrebbe fermarsi ogni volta a meditare, ad analizzare nel fondo? Già: che ne sa lui di me, che ne sa della sporcizia e delle violenze, del silenzio di cinque mesi e delle porte chiuse, della faccia di Abu Qutada quando ti squadrava e sembrava studiare il posto più adatto per farti del male? Mi sono trascinato io entro una striscia di tenebre come un Oreste con gli urli lontani delle Furie alle spalle.

A Rahman nessuno ha chiuso gli occhi con un gesto di pietà, ha la bocca spalancata come se cercasse ancora un po’ d’aria per non morire. La barba intrisa di sangue, mi spia dalla foto con i suoi occhi di rettile. Sembra che sorrida, ma mi accorgo invece che è la forma dei suoi occhi piccolissimi e l’esagerato taglio della bocca che dà questa illusione. Mi mostravi il tuo coltello ricurvo, nel tuo minuzioso travestimento da Bin Laden: cane, un giorno ti ucciderò con questo. Che cosa sei diventato con il tuo Corano e la voce flautata con cui modulavi la preghiera dandoti arie da dotto?

«All’inizio questo gruppo faceva parte di al Faruq, una delle sigle della ribellione, poi si sono messi in proprio, ma non facevano solo sequestri: commerciavano in droga, se i sequestrati erano poveri vendevano i loro organi, un rene 5.000 dollari, vendevano le ragazzine minorenni come prostitute. Qualche capo è fuggito in tempo in Turchia, con i soldi ha comperato belle case».

Un bandito eri diventato, senza più ideologie o bandiere, tu che dicevi di essere un combattente di una guerra santa, la parola di Dio dicevi, era un ferro rovente per te. ma non avevi bisogno di pinze, la impugnavi a piene mani. Un bandito.

La pietà balorda

E tu, quello che chiamavano la «vecchia merda»? Sei l’unico anziano di questo gruppo di morti ragazzi: nudo ti hanno fotografato, ora sei affilato e magro, bianco nella morte come i cadaveri dei quadri del Greco. La pietà vedi è una bestia cui si può domandare molto, ma non tutto. È possente, vorace. Non so perché la si rappresenti sempre un poco piagnucolosa, un po’ balorda. Una delle più forti passioni dell’uomo, ecco cosa è. In questo momento io che ti guardo ho creduto che stesse per divorarmi. «Non c’è acqua» ridacchiavi, vietandoci di lavarci, mentre si sentivano i rubinetti scrosciare. Adesso taci e sai che cosa è l’ingiustizia. All’inizio appartenevi a una razza di uomini che l’ingiustizia fiuta da lontano, la spiavi pazientemente sino al giorno in cui la guerra ti ha dato modo di esercitarla. Forse credevi di farla indietreggiare fissandola negli occhi come un domatore, non sei sfuggito alla sua vertigine. Dicevi che alla tua età il sonno attira l’attenzione della morte, pensavi che non sarebbe giunta finché fossi sveglio. Temevi forse l’angoscia dell’ultimo rantolo? O il fatto che essa è ciò che non esiste?

Ecco l’unica foto in cui c’è un uomo ancora vivo. Mi guarda in primo piano, in testa ha un berretto di lana nero, un po’ di sbieco ambiguo, gli occhi duri come ciottoli. Così guardava quando entrava nella mia stanza di prigioniero.

Questo è ancora vivo? «No, la foto è vecchia, è morto negli interrogatori».

Sprono il mio rancore come un cavallo rattrappito, ma esso non risponde più. I ricordi divengono minuscole, remote immagini viste attraverso un telescopio capovolto, sempre più piccole e più lontane, finché non dileguano del tutto. Sì, tutto questo è successo da tanto di quel tempo. Quante esistenze si devono vivere prima di morire?

(Domenico Quirico/La Stampa 19 giugno 2016)