Da un economista dell’Università di Harvard una riflessione sull’impatto delle innovazioni tecnologiche nell’economia e nella società. Tra tecno-ottimisti, tecno-pessimisti e tecno-apprensivi.

CAMBRIDGE – Sembra di vivere in un’epoca di grandi accelerazioni per quanto riguarda le innovazioni tecnologiche rivoluzionarie. Non passa giorno senza l’annuncio di qualche importante novità nel campo dell’intelligenza artificiale, delle biotecnologie, della digitalizzazione, o dell’automazione. Tuttavia, coloro che dovrebbero sapere dove ci porta tutto questo stentano a prendere delle decisioni.

Da una parte ci sono i tecno-ottimisti, i quali sono convinti che ci troviamo all’inizio di una nuova era in cui il tenore di vita del mondo aumenterà più rapidamente che mai. Dall’altra i tecno-pessimisti, che ritengono le statistiche sulla produttività deludenti e sostengono che i benefici per l’intera economia da parte delle nuove tecnologie resteranno limitati. Poi ci sono coloro – i tecno-apprensivi? – che sono d’accordo con gli ottimisti circa l’entità e la portata delle innovazioni, ma si preoccupano delle implicazioni negative per occupazione e giustizia.

Ciò che distingue queste prospettive l’una dall’altra non è tanto il disaccordo circa il tasso di innovazione tecnologica. Dopo tutto, chi può seriamente dubitare del fatto che l’innovazione stia progredendo rapidamente? Il dibattito è incentrato sulla questione se queste innovazioni resteranno imbottigliate in alcuni settori ad alta intensità tecnologica, che impiegano i professionisti con più elevato livello di qualificazione e rappresentano una quota relativamente piccola del PIL, o si diffonderanno nella maggior parte dell’economia. Le conseguenze di ogni innovazione per quanto riguarda produttività, occupazione ed equità dipendono, in ultima analisi, da quanto velocemente essa si propaga attraverso i mercati del lavoro e dei prodotti.

La diffusione tecnologica può essere limitata in economia sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta. Si prenda in considerazione dapprima il versante della domanda. Nelle economie ricche, i consumatori spendono la maggior parte del proprio reddito in servizi quali sanità, istruzione, trasporti, alloggi, e merci al dettaglio. L’innovazione tecnologica ha avuto fino ad oggi relativamente un impatto modesto in molti di questi settori.

Consideriamo alcuni dati forniti dal recente rapporto Digital America” del McKinsey Global Institute. Negli Stati Uniti i due settori che hanno sperimentato la crescita più rapida della produttività dal 2005 sono l’ICT (Information and Communications Technology) e l’industria dei media, con una quota del PIL globale inferiore al 10%. Al contrario, i servizi pubblici e l’assistenza sanitaria, che insieme producono più di un quarto del PIL, praticamente non hanno avuto una crescita della produttività.

I techno-ottimisti, come ad esempio gli autori del McKinsey, considerano tali dati un’opportunità: restano ampi margini di incremento della produttività derivabili dall’adozione di nuove tecnologie nei settori in ritardo di sviluppo. I pessimisti, invece, ritengono che divari di questo tipo possano essere una caratteristica strutturale e persistente delle attuali economie.

Ad esempio, lo storico dell’economia Robert Gordon sostiene che le innovazioni di oggi impallidiscono al confronto di precedenti rivoluzioni tecnologiche in termini del loro probabile impatto sull’intera economia. Energia elettrica, automobile, aereo, aria condizionata, ed elettrodomestici hanno cambiato radicalmente il modo in cui vive la gente comune. Sono andati ad incidere su tutti i settori dell’economia. La rivoluzione digitale, per quanto formidabile, forse non riuscirà a fare altrettanto.

Dal lato dell’offerta, la questione cruciale è se il settore innovativo può avere accesso al capitale e alle competenze di cui ha bisogno per espandersi rapidamente e continuamente. Nei paesi avanzati, in genere nessuno dei due vincoli è molto forte. Ma quando la tecnologia richiede competenze elevate – il cambiamento tecnologico è “skill-biased”, nella terminologia degli economisti – la sua adozione e diffusione tenderanno ad allargare il divario tra le retribuzioni dei lavoratori scarsamente ed altamente qualificati. La crescita economica sarà accompagnata da crescenti disuguaglianze, come è avvenuto negli anni novanta.

Il problema dal lato dell’offerta affrontato dai paesi in via di sviluppo è più debilitante. La forza lavoro è prevalentemente poco qualificata. Storicamente, questo non è stato un handicap per i paesi ad industrializzazione tardiva, fin quando il processo industriale consisteva in operazioni di assemblaggio ad alta intensità di manodopera, come nel settore dell’abbigliamento ed in quello automobilistico. I contadini potevano essere trasformati in operai praticamente in una notte, comportando significativi incrementi di produttività per l’economia. L’industria è stata tradizionalmente una rapida scala mobile verso livelli di reddito più elevati.

Ma una volta che le operazioni di produzione industriale diventano robotizzate e richiedono elevate competenze, i vincoli dal lato dell’offerta cominciano a mordere. In effetti, i paesi in via di sviluppo perdono il loro vantaggio comparativo nei confronti dei paesi ricchi. Oggi ne vediamo le conseguenze nella “deindustrializzazione precoce” del mondo in via di sviluppo.

In un mondo di deindustrializzazione precoce, realizzare la crescita della produttività dell’intera economia diventa molto più difficile per i paesi a basso reddito. Non è chiaro se ci sono sostituti efficaci per l’industrializzazione.

L’economista Tyler Cowen ha suggerito che i paesi in via di sviluppo possono beneficiare del “trickle-down” di innovazione proveniente dalle economie avanzate: possono consumare un flusso di nuovi prodotti a prezzi economici. Questo è un modello di ciò che Cowen chiama “cellulari al posto delle fabbriche di automobili”. Ma la domanda rimane: questi paesi cosa dovranno produrre ed esportare – oltre ai prodotti primari – per essere in grado di permettersi i cellulari d’importazione?

In America Latina, la produttività dell’economia ristagna, nonostante una significativa innovazione nelle aziende meglio gestite e nei settori d’avanguardia. L’apparente paradosso è risolto notando che la rapida crescita della produttività dovuta all’innovazione è stata annullata dai lavoratori che si spostano dalle aree più produttive dell’economia a quelle meno produttive  – un fenomeno che i miei coautori e io abbiamo chiamato “cambiamento strutturale che riduce la crescita”.

Questo risultato perverso diventa possibile quando nell’economia c’è un grave dualismo tecnologico e le attività più produttive non si espandono abbastanza rapidamente. È preoccupante che esistano evidenze del fatto che “cambiamenti strutturali riducenti la crescita” sono avvenuti di recente negli Stati Uniti.

In definitiva, si tratta delle conseguenze sulla produttività economica dell’innovazione tecnologica, non delle innovazioni in quanto tali, che innalzano gli standard di vita. L’innovazione può coesistere fianco a fianco con una bassa produttività (al contrario, la crescita della produttività è talvolta possibile in assenza di innovazione, quando le risorse si spostano verso i settori più produttivi). I techno-pessimisti riconoscono questo punto; gli ottimisti potrebbero non avere torto, ma per far valere la propria posizione, è necessario che focalizzino l’attenzione sugli esiti degli effetti della tecnologia sull’economia nel suo complesso.

Dani Rodrik/project-syndicate, giugno 2016

*Dani Rodrik è un economista di origine turca ed è professore di Economica Politica Internazionale all’Università di Harvard. È autore di svariati saggi economici, tra cui La globalizzazione intelligente (2011), pubblicato in Italia da Laterza.