Il professor Umberto Veronesi interviene sulla Stampa a proposito della XV Giornata Nazionale del Sollievo (celebrata il 29 maggio), che lo stesso oncologo ha voluto, quando era ministro della Sanità, per promuovere la cultura del sollievo dalla sofferenza fisica e morale.

Cos’è il sollievo e perché è necessaria una cultura? Dare sollievo non è somministrare una terapia del dolore, ma alleviare i sintomi e i pensieri che pesano nella vita di un malato grave, al di là della sua malattia. Non è quindi solo affrancamento dal dolore fisico, ma capacità di far sentire la persona malata costantemente degna di cura, di attenzione e di amore in ogni fase della malattia, anche quando non è possibile guarire. Oggi può apparire un diritto «naturale» per chi soffre, ma era un principio del tutto marginale nella mentalità dei medici fino a pochi anni fa. Quando nell’anno 2000 ho liberalizzato la prescrizione di morfina per i malati terminali, che ancora sopportavano dolori atroci, ci vollero anni perché i medici di fatto ne apprezzassero l’impiego. C’era resistenza da parte loro perché gli oppiacei sono sostanze «proibite» e c’era resistenza anche da parte dei familiari del paziente perché la morfina veniva vissuta come segnale della fine. E così la fine arrivava nello strazio, invece che nella pace.

Molti progressi sono stati fatti da allora, ma altrettanti ne restano da fare. A sei anni dalla promulgazione della legge 38, che sancisce il diritto all’accesso alle terapie del dolore e alle cure palliative, il 60 % dei medici ignora l’esistenza della legge e il 40% degli italiani che hanno una forma di dolore severa non riceve un trattamento adeguato. Il prossimo obiettivo è quindi garantire una fruibilità omogenea sul territorio nazionale di terapie del dolore e cure palliative e dare un aiuto alle famiglie per far fronte alle ripercussioni sociali ed economiche legate al dolore, soprattutto se cronico, di un familiare. Va riconosciuto inoltre il ruolo fondamentale degli operatori volontari, veri «santi laici». Raggiungeremo sicuramente questo obiettivo con l’impegno del ministero della Salute e le autorità competenti, ma soprattutto con la creazione di una nuova coscienza. Quando nel 1994 ho fondato l’Istituto Europeo di Oncologia, ho voluto che fosse un «ospedale senza dolore». Significa che il dolore fisico in ogni reparto viene misurato e curato come ogni altro effetto collaterale delle terapie, e che viene considerata anche la sofferenza. Quando il dolore fisico viene elaborato dalla mente diventa appunto sofferenza, un disagio profondo analogo a quello che proviamo, ad esempio, per un lutto.

Nella mia esperienza di vicinanza a centinaia di malati terminali ho capito che a volte la sofferenza sovrasta il dolore fisico per via della solitudine, il senso di emarginazione e la percezione di una specie di rifiuto da parte del mondo intorno. È a questo punto che il medico deve dare il meglio di sé e dedicarsi al paziente con impegno, dialogo e soprattutto amore. Senza amore empatico non ci può essere sollievo e non ci può essere buona medicina in generale. Dare voce a chi ha bisogno di sollievo è dunque un gesto a favore del progresso medico e civile del Paese. Lo intuì molto bene Gigi Ghirotti, giornalista de La Stampa negli Anni 70, che al culmine della sua carriera si ammalò di un linfoma di Hodgkin, tumore allora inguaribile, e «da inviato, suo malgrado, dentro il tunnel della malattia e dell’ospedalizzazione» – per usare le sue parole – informò il Paese della sua esperienza di malato oncologico e poi terminale, senza timore di denunciare gli aspetti più tragici. Dal suo coraggio, è nata una Fondazione che porta il suo nome e che promuove la Giornata del Sollievo, insieme al ministero della Salute, sin dalla prima edizione. Oggi Gigi Ghirotti quasi sicuramente sarebbe guarito.

(Umberto Veronesi/La Stampa 28 maggio 2016)