La storia del pentitismo di mafia dalle rivelazioni di Leonardo Vitale a Tommaso Buscetta

Pochissimi giorni fa si è concluso il processo bis per la strage di Capaci in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. Si è concluso con 5 ergastoli. La richiesta riguarda Salvatore “Salvino” Madonia, Vittorio Tutino, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello. Sarebbero i soggetti che hanno avuto una parte fondamentale sia nella fase organizzativa dell’attentato sia nel reperimento dell’esplosivo piazzato sull’autostrada. Traguardi della giustizia che sono stai possibili, negli anni, grazie ai pentiti.

La storia del “pentitismo” di mafia: dalle importanti confessioni di Leonardo Vitale e Tommaso Buscetta, i due primi importanti boss mafiosi che iniziano un percorso di collaborazione con la giustizia, alla prima legge sui “pentiti” che viene approvata in Italia nel 1991 e che segna un passo decisivo nella lotta alla mafia. Le testimonianze dei collaboratori di giustizia evocano spaccati di vita impressionanti e ricostruiscono la storia di una delle più importanti organizzazioni criminali di tutti i tempi.

Il 29 marzo 1973 Leonardo Vitale si presentò alla questura di Palermo e venne accompagnato nell’ufficio di Bruno Contrada, all’epoca commissario della squadra mobile, al quale dichiarò di attraversare una crisi religiosa e di voler iniziare una nuova vita: si autoaccusò di due omicidi, di un tentato omicidio, di estorsione e di altri reati minori, fece i nomi di Salvatore Riina, Giuseppe Calò, Vito Ciancimino ed altri mafiosi, collegandoli a precise circostanze, e rivelò per primo l’esistenza di una “Commissione“, descrivendo anche il rito di iniziazione di Cosa Nostra e l’organizzazione di una cosca mafiosa. Le dichiarazioni di Vitale portarono all’arresto di quaranta membri della cosca di Altarello di Baida, ma la metà di questi furono rilasciati qualche tempo dopo per insufficienza di prove. In seguito alle sue dichiarazioni, lo stesso Vitale finì nel carcere dell’ Ucciardone, dove venne sottoposto a numerose perizie psichiatriche e dichiarato seminfermo di mente, affetto da schizofrenia,. Venne quindi rinchiuso nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Parlò anche dell’omicidio del magistrato Pietro Scaglione e dell’agente Antonio Lo Russo, suo autista, ordito da Luciano Liggio e Totò Riina.

Nel 1977 Vitale finì sotto processo insieme allo zio Titta e altri 27 membri della cosca di Altarello di Baida. Alla fine del processo però gli altri imputati vennero assolti per insufficienza di prove, lo zio ricevette una pena per omicidio e associazione a delinquere, mentre la pena di venticinque anni di carcere di Vitale venne commutata in detenzione nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto, di cui però scontò soltanto sette anni. Dimesso dal manicomio nel 1984, Vitale venne ucciso una domenica mattina con due colpi di lupara alla testa, sparati da un uomo non identificato che lo raggiunse all’uscita dalla chiesa dei Cappuccini di Palermo, mentre era in compagnia della madre.

Quanto affermato da Vitale nel 1973 e mai creduto dagli inquirenti, trovò conferma negli anni 1985/86 e lo stesso Giovanni Falcone, insieme agli altri magistrati del pool antimafia, gli riconoscono il merito di importanti rivelazioni.

Il 25 settembre del 1979 viene ucciso in un agguato il giudice Cesare Terranova insieme al maresciallo di pubblica sicurezza, sua guardia del corpo e collaboratore, Lenin Mancuso: a parlare del progetto di questo omicidio importante fu Giuseppe Di Cristina, detto la Tigre di Riesi, pentito. Boss di prestigio, con una grande tradizione alle spalle, non vede di buon occhio la scalata al potere dei Corleonesi. Già nel ‘77 scampa a un agguato, si convince che il responsabile sia Francesco Madonia e lo elimina. La sua situazione si fa sempre più critica, allora decide di collaborare con la giustizia affidando le sue confidenze al comandante Alfio Pettinato, della compagnia di Gela. Rivela che a uccidere il colonnello Giuseppe Russo, capo della sezione investigativa di Palermo e uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa, furono Totò Riina e Giuseppe Provenzano. Ma Giuseppe Di Cristina è segnato e il 30 maggio 1978 venne ucciso a Palermo dai Corleonesi.

Alla morte di Cesare Terranova, al suo posto arriva Rocco Chinnici, il quale già alla fine degli anni settanta aveva intuito cosa fosse Cosa Nostra e le sue connessioni con l’alta finanza, la politica e l’imprenditoria; una gigantesca organizzazione con capitali gestiti all’estero, collegamenti con le organizzazioni d’oltreoceano e con quelle similari in altre regioni d’Italia, i rapporti mafia-politica, la droga, l’inadeguatezza delle leggi. La grandezza di Chinnici fu anche di potenziare e rendere efficaci gli strumenti per la lotta alla mafia. Il giudice aveva capito l’importanza di lavorare in équipe e aveva gettato le basi per il futuro pool antimafia guidato da Antonio Caponnetto. Fu Chinnici a creare l’embrione del primo Maxiprocesso con il procedimento allora detto “dei 162”, importante per la ricostruzione del fenomeno mafioso, poichè denuncia i crimini di ben 162 mafiosi (Corleonesi e non), tra cui i più importanti esponenti di vertice, come Michele Greco, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Raffaele Ganci, Giuseppe Calò, Antonino Geraci, Salvatore Montalto e Salvatore Buscemi. Fu tra i primi a capire che per comprendere realmente il fenomeno mafioso bisognava cercare tutte le interconnessioni tra i grandi delitti compiuti dalla mafia. Così come era convinto che solo un intervento globale dello Stato, avrebbe potuto sicuramente avviare il processo di sradicamento della mafia. Il 28 luglio 1983 Chinnici fu ucciso con un’autobomba. Palermo come Beirut: autobomba, tritolo, kalashnikov.

Nel 1984 atterra all’aeroporto di Fiumicino Tommaso Buscetta, Don Masino, arrestato su mandato internazionale spiccato dalla magistratura italiana. Lo accompagna il commissario Gianni De Gennaro, lo Squalo, trasferito alla Criminalpol per dirigere il Nucleo Centrale Anticrimine. A lui Buscetta chiederà di poter parlare con Giovanni Falcone. Buscetta era un mafioso diverso dagli altri, era violento, estremo, intelligente. A venti anni era il boss di Portanova. Si occupava di traffico di stupefacenti tra Italia, Stati Uniti, Brasile e Messico. Nel 1970 fu arrestato nell’ambito della French Connection, una storia di collaborazione tra Cosa Nostra e il clan dei Corso-Marsigliesi, per la raffinazione e il traffico di eroina. Fa parte delle cosche perdute, ossia delle famiglie Bontate, Inzerillo, Badalamenti, che verranno trucidate dai Corleonesi. Allo stesso Buscetta uccidono 14 familiari, tra cui due figli.

Tommaso Buscetta fornisce una chiave di lettura particolare del linguaggio delle cosche, delle simbologie, dei riti di affiliazione, delle regole, della struttura delle famiglie, delle commissioni e dei capimandamento. Della “Cupola”, insomma. Racconta di omicidi e di organigrammi.

Un altro pentito che decide di collaborare con la giustizia, e che fu autorizzato a farlo proprio da Buscetta, è Salvatore “Totuccio” Contorno, di Santa Maria di Gesù, uomo di Stefano Bontate, il” Principe” di Villagrazia, il boss in doppiopetto. Quando questi muore, nell’aprile del 1981, Totuccio Contorno capisce di avere le ore contate: decise di allontanarsi da Palermo e di riparare a Roma, da dove organizzò l’omicidio di Pippo Calò, ritenuto responsabile della morte di Bontate. Nel marzo 1982 fu arrestato a Bracciano. Dopo alcuni mesi dietro le sbarre, Contorno cominciò a rivelare informazioni sull’organizzazione mafiosa divenendo una delle fonti confidenziali del Vice Questore Antonino “Ninni” Cassarà.

Alla morte di Stefano Bontate, Francesco Marino Mannoia, il chimico delle cosche, passa con i Corleonesi. Nel 1986 viene arrestato. Quando gli uccidono il fratello, decide di collaborare con la giustizia. Due mesi dopo, nello stesso giorno, i Corleonesi gli uccidono la madre, la sorella e la zia. Solo dopo la morte di Falcone parlò dei rapporti tra mafia e politica. Fu lui a rivelare che nel 1980 Giulio Andreotti incontrò a Palermo il Boss Stefano Bontate.

Antonino Calderone, invece, è un mafioso di Catania, vicino però alla famiglia Bontate. Le sue rivelazioni portarono a 200 arresti.

Sono tanti i mafiosi che in quegli anni scelgono di pentirsi e di parlare, per paura, per non essere uccisi, per vendicarsi: sono quasi 400. Non esisteva una vera e propria legge sul pentitismo: esisteva la Legge Cossiga del 6 febbraio 1980, sull’ordine pubblico, che introduceva nel codice penale il carcere di sicurezza, nata per contrastare le attività delle BR. Ma sorsero delle polemiche e la gente cominciava a chiedersi perché lo stato dovesse fare sconti ai mafiosi, perché dovesse scendere a patti con loro, perché dovesse rendersi complice delle loro vendette.

Il 10 febbraio 1986 inizia il Maxiprocesso. Sulla base delle indagini del pool antimafia e delle rivelazioni dei pentiti, primo fra tutti Tommaso Buscetta, vengono rinviate a giudizio 475 persone. Il 16 dicembre 1987, il Maxiprocesso si concluse con 365 condanne, 2665 anni di carcere, 19 ergastoli. Sentenze confermate in Cassazione nel 1992. Se non ci furono assoluzioni, come era accaduto in passato nei processi di mafia, era perché chi aveva parlato, i pentiti, i collaboratori di giustizia, erano presenti al processo, a confermare le accuse.

Le condanne del Maxiprocesso non furono accettate da Cosa Nostra e da Totò Riina che lanciarono l’offensiva stragista: bombe a Milano, a Firenze, a Roma, la strage di Capaci, la strage di via D’Amelio… Lo Stato reagì con l’azione investigativa e con le leggi, soprattutto con il 41bis, il carcere duro, l’isolamento, che limita i contatti dei mafiosi anche con i familiari. E’ una guerra senza regole e senza limiti.

Gaspare Mutolo è un pezzo grosso di Partanna Mondello, braccio destro di Saro Riccobono, autista di fiducia e guardaspalla di Totò Riina. Si era arricchito con i traffici di droga con il Medio Oriente e le partecipazioni in appalti di costruzioni in Nord Italia. Finisce in carcere con il Maxiprocesso e teme di essere ucciso. Non gli piace quello che è diventata Cosa Nostra, non vede più onore e dignità negli affiliati, ma odio e tradimenti. Non si uccide più con le armi convenzionali, Riina preferisce l’acido e le grosse griglie per bruciare i cadaveri.

La prima legge organica che estende i benefici per i collaboratori di giustizia è la legge 82 del 1991: esclusione dell’ergastolo, forti sconti di pena, programmi di protezione per collaboranti e familiari, premi in denaro e assegni di mantenimento. Una legge che suscitò molte polemiche. Non si capiva perché dovessero essere “premiati” dei criminali. Anche perché molti di loro, in regime di protezione, continuavano a commettere reati, come Balduccio Di Maggio, Gioacchino La Barbera, Giovanni Brusca, che aveva preso il posto di Riina dopo il suo arresto e che sarà l’uomo che farà saltare in aria il giudice Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta. L’uomo del telecomando.

I pentiti hanno parlato, hanno raccontato di stragi, estorsioni, omicidi, ricatti. Hanno portato a scoprire nascondigli, a trovare latitanti. Hanno parlato di vecchi misteri, come la morte del presidente dell’Eni Enrico Mattei, della scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, della morte del banchiere Roberto Calvi, hanno parlato del Golpe Borghese. Hanno parlato anche di collusione, di contatti con la politica.

Nel febbraio 2001, con la legge 45, si disciplina il pentitismo e viene modificata la legislazione precedente: si prevedono la riduzione della pena e l’assegno di mantenimento, ma il pentito dovrà comunque scontare un quarto di pena e potrà accedere ai benefici di legge solo quando la sua collaborazione verrà ritenuta valida e inedita. Avrà 180 giorni per raccontare tutto quello che sa. E’ inoltre obbligato a dichiarare tutti i beni in suo possesso, sia di provenienza lecita che illecita, che lo Stato sequestrerà in via cautelativa. Anche qui si sollevarono polemiche, perché in questo modo si scoraggiava a collaborare con la giustizia e si toglieva ai magistrati un’arma importante. Il numero dei pentiti iniziò a calare, da 428 nel 1996 si arrivò a 237 nel 2007.

La forza di Cosa Nostra non è nelle stragi, che evidenziano la debolezza del sistema, ma nella capillare diffusione e infiltrazione nel quotidiano, avvelenando tutto, anche la politica. Cosa Nostra vive di delitti e di corruzione. Il suo sistema è meschino, lo sono i suoi personaggi : esaltano amicizia, lealtà e valore, in realtà raccontano di vizi, di slealtà, di sospetto, di odio, di paura. Giovanni Falcone disse: La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.” Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, magistrati scomodi perché “parlavano in palermitano”, che capivano il linguaggio mafioso, che conoscevano il senso dell’onore siciliano. E che avevano compreso quale forte strumento fosse il pentitismo. Il Maxiprocesso fu una vittoria, ma costò loro la vita.

Nadia Loreti/com.unica 30 maggio 2016)