In questa intervista ad Antonio Monda per “Repubblica“, il grande autore americano racconta il nuovo romanzo Zero K e le inquietudini del suo Paese. “I Presidenti deludono sin dal giorno del loro insediamento. Ma guai a non sperare ancora”.

NEW YORK. Dei quattro grandi scrittori americani che nel canone di Harold Bloom compongono il pantheon della narrativa contemporanea, Philip Roth, Thomas Pynchon, Cormac McCarthy e Don DeLillo, quest’ultimo è colui che appare maggiormente interessato a questioni sociali e politiche. Ogni suo libro nasce da una necessità etica che assume spesso una riflessione spirituale – De Lillo è stato allevato dai gesuiti – e che in questo suo ultimo, magnifico libro, uscito negli Stati Uniti con il titolo “Zero K” si traduce in una riflessione sul senso ultimo dell’esistenza.

Ancora una volta DeLillo rivela un’imprescindibile tensione morale ed uno sguardo eclettico, oltre ad un sentimento dolorosamente anarchico: “Gli scrittori hanno l’obbligo morale di opporsi al sistema” ha dichiarato pochi anni fa “è importante scrivere contro il potere, le corporazioni, lo stato e l’intero meccanismo di piaceri debilitanti e decadenti. Ritengo che gli autori per loro natura debbano opporsi a qualunque potere cerca di imporsi su di noi”.

La linea che divide tale approccio dall’attivismo politico o dalla letteratura piegata al messaggio è sottile, ma la sua grandezza risiede nel modo in cui la scrittura trova la completezza armonica all’interno di creazioni sorprendenti, e nella curiosità che continua ad avere nei confronti di tutto ciò che è contemporaneo. Alla soglia degli ottanta anni, DeLillo racconta di un miliardario che ha investito in una misteriosa tecnologia che consente di preservare i corpi affinchè possano essere riportati in vita quando la scienze lo consentirà. “Chi parla con me in questi giorni” mi racconta nella sua nuova casa dell’Upper East Side “mi dice più o meno garbatamente che questo è il romanzo di una persona anziana, che sente l’avvicinarsi della fine: è innegabile che il libro parli dell’idea di mortalità, come è innegabile la mia età. Ma si tratta di temi ricorrenti sin dall’inizio del mio percorso letterario, e sono temi che dovrebbe avere a cuore ognuno: viviamo al cospetto della nostra fragilità e della nostra finitezza. Sento la necessità di concludere che uno scrittore non deve essere analizzato solo per quanto riguarda i temi, ma anche per il linguaggio e i personaggi.”

zerokappa

Il libro parla anche di “thinness”, sottigliezza, dell’esistenza.

Ne parla in particolare uno dei personaggi, chiamato Ben Ezra. E che riflette esattamente quello che penso, aggiungendo che in questa sottigliezza, fragilità e mortalità dell’esistenza io riesco a scorgere anche meraviglia e incanto.

Lei rifiuta sempre le identificazioni autobiografiche.

Cerco di inventare sapendo che forse è un’illusione. Posso però confidare che il finale di questo romanzo racconta una scena alla quale ho assistito qualche anno fa in prima persona in un autobus a New York. E che in “Underworld” tutti i momenti relativi al quartiere italo-americano del Bronx sono legate ad esperienze personali: in quelle pagine non ho inventato nulla.

Perché ha deciso di parlare di preservazione crionica?

È difficile negare che si tratti di un modo per riflettere di vita e morte. L’elemento scatenante è nato quando un grande giocatore di baseball, Ted Williams, ha dichiarato di voler essere preservato in un centro specializzato in Arizona. Ho scoperto l’esistenza di questa realtà inquietante, e ho cominciato a riflettere sull’anelito umano all’immortalità, declinato tuttavia ai tempi nostri: soltanto i più ricchi possono partecipare a questo progetto. All’interno di questa realtà ho parlato di coloro che desiderano essere conservati pur non essendo vicini alla morte: questo è ancora più inquietante.

Lei scrive: “Nasciamo senza averlo scelto. Dobbiamo anche morire nella stessa maniera?” Non fa parte della gloria umana rifiutare di accettare un certo destino?

Non ho alcuna simpatia per questi esperimenti: non lo farei neanche se sapessi di avere due settimane di vita. Tuttavia questa affermazione fa parte di una riflessione che porto avanti da molti anni e in molti libri.

Sembra che lei abbia paura della morte quanto ne abbia della vita.

La pensano così i miei personaggi, non aggiungo altro.

Ritiene che la scienza sia in grado di spiegare tutto?

No, affatto. Ci sono aspetti delle nostre menti, e della nostra intimità, che rimane inspiegata, e a mio avviso rimarrà sempre tale. La parola che viene usata frequentemente a riguardo è anima.

Ritiene che tutto quello che è possibile sia anche lecito?

No, è sempre fondamentale porre dei limiti morali. Quello che la scienza riesce ad ottenere diviene quello che si deve ottenere, con conseguenze non necessarie e spesso inquietanti.

Lei ha dichiarato il dovere di uno scrittore di opporsi al sistema: il suo paese sta vivendo una grande ondata anti-sistema, che si colora a destra con Trump e a sinistra con Sanders.

Sembra che il paese mostri crepe in passato impensabili, che mettono in crisi bisogni e speranze. Si vive la sensazione che gli USA non abbiano la centralità di un tempo, e che aveva anche quando si opponeva, vincendo, contro l’Unione Sovietica. Questi movimenti, peraltro non diversi da altri in diverse parti del mondo, diventano più sorprendenti in un paese che ha nei suoi geni l’idea di promessa, e nascono per rispondere all’idea di ripristinare –con ricette opposte- quella centralità.

La politica delude sempre?

Sì: in America qualcosa muore già nel giorno del discorso inaugurale del nuovo presidente, basta vedere la distanza dalle promesse elettorali. Ma guai a non sperare e a abdicare.

Nel mondo si assiste al fenomeno di romanzi lunghissimi: Paul Auster ha in cantiere un libro di mille pagine.

Ogni scrittore ha una sua storia, necessità ed ambizione personale, ma i romanzi sono intrappolati dai rispettivi temi e personaggi: devono seguirli, e non credo sia qualcosa di impostato dall’inizio, sarebbe sbagliato. Esistono capolavori brevi e libri inutilmente lunghi. Io sapevo che il mio non sarebbe stato lungo anche se ci ho messo quattro anni: avevo bisogno di tutto quel tempo per utilizzare parole da scartare prima di trovare quella giusta.

C’è qualcosa che la accomuna agli scrittori indicati da Harold Bloom?

L’ambizione di riflettere su temi imprescindibili, e di realizzare qualcosa dalla dimensioni grandi, ottenuta a volte attraverso volumi piccoli.

(ANTONIO MONDA/Repubblica 6 maggio 2016)