La notte fra il 25 e il 26 aprile 1986, all’una e ventitré, esplose il reattore nucleare numero 4 nella centrale di Lenin a Chernobyl, nella Repubblica Ucraina. L’esplosione avvenne durante un test di sicurezza che era riuscito sull’adiacente unità numero 3. Una serie di circostanze fatali e una sequenza interminabile di errori umani – dalla progettazione della centrale senza copertura blindata alla prova di avaria affidata a una squadra di addetti non addestrati – scatenarono un disastro di immani proporzioni. Il nocciolo del reattore raggiunse velocemente la massima temperatura ed esplose, sprofondando nel suolo per oltre quattro metri. Alla prima esplosione ne seguirono molte altre che lanciarono nell’atmosfera più di venti milioni di curie (740 milioni di becquerel) di materiali radioattivi e altrettanti di gas radioattivi inerti: una quantità di sostanze duecento volte superiore alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki.

La nube tossica irradiò il settanta per cento della vicina Bielorussia, vennero contaminate aree in cui vivevano più di novemila persone. Migliaia di volontari, circa seicentomila tra operai, tecnici, militari e riservisti, furono chiamati a “liquidare le conseguenze dell’incidente di Chernobyl”, ognuno dotato di un camice, un cappellino bianco e una semplice mascherina di garza. Qualcuno li chiamò bio-robot, perché sgombrarono le macerie e raschiarono le superfici contaminate senza sosta e a mani nude, senza protezioni adeguate. In corsa contro il tempo, ricoprirono con un manto di cemento il reattore che continuava a bruciare. La copertura venne chiamata “sarcofago” e avrebbe dovuto essere provvisoria, ma dopo trent’anni è ancora lì, erosa dal calore del reattore, dagli agenti atmosferici e infiltrata di acqua, con l’altissimo rischio di contaminare le falde acquifere. I “liquidatori” fecero anche altro: sotterrarono tonnellate di terra contaminata, lavarono le strade, le auto, le case e interrarono interi villaggi contaminati. In assoluto silenzio, perché avevano ricevuto l’ordine di non parlare con la popolazione. Molti di loro morirono poche settimane dopo, altri negli anni successivi, consumati dalle malattie. Iniziò così l’incubo Chernobyl, il disastro nucleare più terribile della storia. E ancora più terribili furono le notizie taciute e quelle manipolate dalle autorità governative.

La nube radioattiva che si sprigionò dal reattore numero 4 si propagò prima in Svezia e in Scandinavia, poi in Europa sud-occidentale, infine arrivò alle coste dell’America Orientale. Le città di Chernobyl e Pripyat, dove vivevano gli operai della centrale con le loro famiglie, furono evacuate dopo 48 ore dal disastro “come misura temporanea”. Insieme alla zona di esclusione, vasta diversi chilometri, sono diventate ormai luoghi fantasma, non abitabili a causa delle radiazioni. Tuttavia, tra quelle abitazioni senza vita si nascondono profughi in fuga dalle guerre, o uomini in fuga dalla giustizia e nella zona d’esclusione pascolano indisturbati cervi e cinghiali. Nella realtà, sono 5 milioni le persone che abitano su terreni contaminati, consumano gli ortaggi che vi coltivano e bevono l’acqua che scorre in quelle falde.

Le vittime del disastro accertate dall’Onu furono 65, ma negli anni quattromila persone sono morte per le radiazioni e nel mondo si contano 6 milioni di vittime. Oggi si sta costruendo un nuovo sarcofago, per ricoprire quello vecchio e il reattore: ha una forma di arco lungo 162 metri e alto 108. Il progetto, chiamato New Safe Confinement, è della joint-venture francese Novarka, il manto di cemento dovrebbe resistere per i prossimi cento anni. A fornire i materiali in acciaio è un’azienda italiana di Pordenone, la Cimolai. Il nuovo sarcofago permetterà di contenere il materiale radioattivo e di smantellare il reattore attraverso una serie di ponti mobili. È un progetto che vede impegnati mille operai ucraini, i quali lavorano in una zona bonificata, con monitoraggi continui sulla radioattività e la contaminazione atmosferica. Alla fine di quest’anno il nuovo sarcofago verrà fatto scivolare su quello preesistente, nel 2017 verrà fissata la membrana che lo renderà ermetico e verranno ultimati i vari test sulle funzioni.

Sono trascorsi trent’anni da quella terribile notte in cui persero la vita gli addetti alla sicurezza, ignari di stare per avviare una procedura mortale. Dopo 24 ore dall’esplosione, le città vicine alla centrale ancora non erano state evacuate e gli uomini, le donne e i bambini, che si diressero sul ponte della ferrovia a Pripyat ad osservare la centrale distrutta e lo spettacolo dei coloratissimi incendi della grafite e delle luci arcobaleno, morirono tutti. Valerij Legasov, scienziato e chimico, capo della commissione scientifica d’emergenza che fu inviata sul luogo dell’esplosione subito dopo, si suicidò il 27 aprile 1988. Morirono i liquidatori esposti alle radiazioni. Furono organizzate battute di caccia per eliminare i cani ormai contaminati abbandonati dai residenti in fuga.

Morirono e morirono ancora migliaia di persone, per quello che fu un errore umano, ma non solo della squadra degli addetti al controllo: l’impianto di Chernobyl produceva un decimo di tutta l’energia elettrica ucraina, ma produceva anche plutonio. Si usava uranio naturale come combustibile per abbassare i costi di produzione. L’elettricità costava meno, ma l’impianto era instabile e ad alto rischio di esplosione. Ancora oggi la temperatura all’interno del sarcofago raggiunge i mille gradi centigradi in prossimità del nocciolo e questa genera una lava semiliquida molto radioattiva, che a contatto con la terra o con le falde acquifere potrebbe provocare un’altra potente esplosione o contaminare tutte le acque. Dopo trent’anni l’incubo non è finito, a testimoniare quanti rischi irrisolti ci siano dietro l’energia nucleare.

(Nadia Loreti/com.unica 29 aprile 2016)