Comincia stasera la festa dell’emancipazione dalla schiavitù e il simbolo di una minoranza che difende i suoi valori. Un messaggio universale.

Oggi, dopo il tramonto, inizia Pèsach, la cosiddetta Pasqua ebraica, il cui significato essenziale e profondo è il ricordo e la celebrazione della Yetziàt Mitzràim, l’uscita/liberazione del popolo di Israele dall’Egitto del Faraone.

È dunque la festa del emancipazione dalla schiavitù e insieme il simbolo di una minoranza che difende i suoi valori. È importante — sempre, e a maggior ragione in questa fase storica — che il messaggio sia il più possibile universale, perché solamente preservando la propria identità e la propria cultura si può contribuire al progresso collettivo e garantire il pluralismo della società di cui si è parte. «Non opprimere lo straniero: voi infatti conoscete l’animo dello straniero, poiché foste stranieri in terra d’Egitto» (Esodo 23,9).

L’ebreo non deve limitarsi a ricordare e celebrare, deve “sentirsi”, sentire sulla pelle e quindi “essere” come se quell’affrancamento dall’oppressione e dalla servitù riguardasse lui, lui in persona, oggi e non nel passato. Troppo facile però limitarsi a considerare la libertà tout court un valore imprescindibile e assoluto. Certo che lo è. Ma lo è altrettanto la libertà interiore. Ci insegnano i Maestri che non è sufficiente uscire dall’Egitto, bisogna fare uscire l’Egitto da noi, espellerlo dalla nostra interiorità. Cioè prenderci le nostre responsabilità, liberi di poter scegliere davanti alla nostra coscienza di quale schiavitù fisica e mentale disfarci. Ecco, credo sia dovere comune non dimenticare e narrare e cercare di rivivere davvero questo percorso — religioso? psicoanalitico? sociale? “politico”?

Le prime due sere di Pèsach noi ebrei cantiamo la Haggadà, il testo rabbinico che si legge durante il Sèder, la cena pasquale. Haggadà vuol dire appunto racconto, e Yetziàt Mitzràim è “il racconto” per antonomasia. Nell’ebraismo spessissimo le parole si tramandano, dette e scritte, labirinto di interpretazioni, dibattiti, dissensi, e si tramandano i rituali, Parole e storie che a loro volta tramandano storie. Chiamiamo la Storia toledot, generazioni; si va avanti midòr ledòr, di generazione in generazione. Il passato che è presente e futuro, assenza di tempo, forse eternità. Mutuando Amos Oz e sua figlia Fania (Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica), diremo che l’eredità da padri e madri a figli e figlie è trasmessa attraverso la testimonianza e non tramite i geni. Narrazioni come quella di questa sera che — senza neppure che lo sappiano — è fotografata negli occhi di milioni di individui sotto forma dell’Ultima Cena di Gesù con i discepoli. In troppi se ne scordano. Così come si dimenticano la libertà, propria e altrui.

Stefano Jesurum, SETTE-CORRIERE DELLA SERA, 22 aprile 2016