Da “La Stampa“, l’editoriale del direttore Maurizio Molinari dedicato alla strategia mediorientale del Presidente della Federazione Russa.

Abile e spietato, Vladimir Putin in sei mesi ha cambiato le sorti della guerra in Siria ed ora punta a guidare la transizione a Damasco assicurando alla Russia il ruolo di potenza leader nei nuovi equilibri in una regione segnata dalla decomposizione degli Stati-nazione arabo-musulmani. Il 1° settembre scorso il capo del Cremlino diede inizio al ponte aereo che ha portato nelle basi di Tartus e Hmeimim aerei, mezzi blindati, droni, artiglieria e truppe a sufficienza per consentire al regime di Bashar Assad di rovesciare l’andamento di un conflitto che lo vedeva in affanno. Allora Assad rischiava di perdere Latakia, isolando Damasco dalla costa alawita, ovvero di essere strangolato mentre adesso i suoi reparti incalzano i ribelli islamici ad Aleppo, hanno ripreso il controllo dei confini con la Giordania e tentano la riconquista di Palmira. Ciò è stato possibile grazie al massiccio impegno militare russo – fino a 800 raid a settimana – con un bilancio pesante in termini di vittime e profughi.

A febbraio i comandi del Cremlino hanno fatto sapere a Putin che era stato raggiunto l’obiettivo prioritario: impedire la caduta di Assad garantendosi il controllo delle basi lungo la costa alawita per gli anni a venire. È stato allora che Putin ha aperto il secondo atto della missione siriana: diventare l’artefice della transizione. Sono state almeno due conversazioni telefoniche con il re saudita Salman – leader della coalizione sunnita che vuole cacciare Assad – a coincidere con la svolta.

I sintomi di quanto stava maturando sono arrivati con l’avallo al cessate il fuoco in Siria concordato con Washington in coincidenza con la ripresa dei colloqui di Ginevra. Ma ciò che più conta è che, nelle ultime settimane, l’Iran ha ritirato gran parte delle truppe. Sul terreno c’erano, fino al termine di febbraio, almeno 2000 Guardiani della rivoluzione e Teheran li ha fatti tornare, su richiesta di Mosca, lasciando sul campo le milizie sciite – afghani, pakistani ed iracheni – con un atto di distensione nei confronti del fronte sunnita guidato da Riad, acerrimo avversario degli ayatollah. Il passo seguente è arrivato con l’annuncio del ritiro di «una parte» delle truppe russe ovvero con il ripiegamento dei contingenti aerei e terrestri nelle basi della costa alawita, protetti dalle batterie anti-missile SS-400 che garantiscono il controllo sui cieli.

Il plauso saudita è stato immediato, con il ministro degli Esteri, Adel Al-Jubeir, che ha parlato di «passo molto positivo» lasciando ai comandi di Riad il compito di precisare che l’invio di truppe in Siria «avverrà solo su richiesta della coalizione occidentale». Ovvero, l’ipotesi resta ma si allontana. La conseguenza è sotto gli occhi di tutti perché la Russia è l’unica potenza con a disposizione canali aperti con ogni Paese-chiave della regione: grazie al patto militare con l’Iran ha salvato Assad ed ora indebolendo la medesima intesa tesse un nuovo rapporto con l’Arabia Saudita, puntando ad avere proprio Riad come interlocutore nella transizione in Siria. È una capriola diplomatica e strategica che evoca i precedenti del cancelliere dell’Impero austriaco Klemens von Metternich nell’Europa napoleonica anche perché ha risvolti spietati: dal silenzio sui crimini di Assad contro i propri cittadini al diktat ad Hezbollah sui limiti del traffico d’armi fino al sostegno per i gruppi indipendentisti curdi avversari della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, l’unica nazione che tenta concretamente di ostacolare Putin. Senza contare il legame a doppio filo della Russia con Israele: testimoniato dalla «linea rossa» che unisce i comandi dei rispettivi eserciti sin dall’inizio del ponte aereo russo come dai frequenti contatti Putin-Netanyahu e dalla recente decisione del presidente Reuven Rivlin di rivolgersi a Mosca per il dispiegamento di Caschi blu dell’Onu sul Golan, dove le truppe di Gerusalemme fronteggiano i jihadisti. E ancora: la Russia è percepita dagli arabi cristiani in Medio Oriente – che in gran parte sono ortodossi – come l’unica potenza capace di proteggerli in maniera credibile, ovvero con le armi, ed è corteggiata dall’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi fino al punto da ipotizzare un ritorno della flotta del Mar Nero nelle acque di Port Said.

Sono i tasselli di un mosaico che consentono a Putin di avere molte carte a disposizione nel grande gioco in atto per ridefinire gli equilibri strategici del Grande Medio Oriente. Con l’obiettivo di assumere una posizione rispetto all’Europa su terrorismo, immigrazione ed energia. È una partita strategica ambiziosa nelle quale il leader del Cremlino gioca con l’abilità spietata di un veterano del Kgb contro i suoi rivali: i gruppi islamici – da Al Qaeda a Isis – intenzionati a dare vita a Califfati jihadisti, i leader europei ancora convinti di poter resuscitare gli Stati frutto degli accordi di Sykes-Picot risalenti a un secolo fa, e un’America concentrata sull’elezione del nuovo Presidente.

Maurizio Molinari, La Stampa domenica 20 marzo 2016