Tornano in libreria “Il Terzo libro e altre cose” e “Tutte le poesie” del grande autore. Letterario e popolare: per questo piace tanto.

Quando Einaudi gli chiese un libro (che tempi, quelli, che gli editori chiedevano libri ai poeti), Giorgio Caproni (1912-1990), legato da un impegno ventennale a Garzanti, ricorse a un piccolo stratagemma. La precedente edizione di Vallecchi del Passaggio di Enea consisteva in tre libri, il primo era da Come un’allegoria a Finzioni, il secondo Cronistorie, il terzo Il passaggio di Enea vero e proprio: Caproni scorporò quest’ultimo, e vi aggiunse qualche altro testo, come in una auto-antologia.

Era il 1968. La poesia, in generale, non godeva di tanti favori in quell’anno cruciale. Il volumetto uscì da Einaudi proprio con il titolo Il Terzo libro e altre cose. E tale viene oggi ripubblicato con l’amorevole cura di due studiosi di Caproni come Enrico Testa e Luigi Surdich. Mentre Garzanti, editore storico di Caproni, annuncia Tutte le poesie con un saggio di Stefano Verdino. Al momento della prima uscita einaudiana, Caproni aveva già pubblicato Il seme del piangere, del 1959, e Congedo del viaggiatore cerimonioso, del 1965. Raccolte che contengono, io credo, i suoi capolavori. Nel primo, si leggono le poesie per la madre Anna Picchi. «Anima mia, leggera/ va a Livorno ti prego./ E con la tua candela/ timida, di nottetempo/ fa un giro; e, se n’hai tempo/ perlustra e scruta, e scrivi/ se per caso Anna Picchi/ è ancor viva tra i vivi». Qui la poesia di Caproni tocca i suoi vertici: il suo settenario perfettamente modulato, la sua rima musicalmente necessaria, la sua ispirazione tra letteraria e popolare al massimo dell’autenticità.

Nella poesia che dà il titolo al Congedo del viaggiatore cerimonioso tocca il suo vertice la misura allegorica che spesso Caproni ha adottato per esprimere il suo mondo: «Amici, credo che sia/ meglio per me cominciare/ a tirar giù la valigia». Il viaggio, in treno questa volta, in uno scompartimento presumibilmente di seconda o terza classe, sta per finire. Una voce modesta e gentile si accomiata dai compagni: «Di questo son certo: io/ son giunto alla disperazione/ calma, senza sgomento». La stazione di arrivo è svelata fuor di metafora. Una disperazione esistenziale, tanto più mortifera quanto accettata senza sussulti. Poi l’allegoria riprende: «Scendo. Buon proseguimento».

Nel Terzo libro leggiamo due poesie in cui questo assetto allegorico è dominante: Stanze della funicolare e L’ascensore. Ancora una volta vengono scelti mezzi di trasporto come simboli del cammino della vita verso esiti sconosciuti. La funicolare esisteva davvero per arrivare a Righi, il punto più alto di Genova. Ma Caproni parte da una interrogazione, «una funicolare dove porta/ amici, nella notte?» e vede il suo viaggio e le sue fermate, gli alt forse impossibili da chiedere, come momenti di un percorso tra oscurità e albe, mare e nebbie infere attraverso una Genova «tremula» che è la città cui Caproni dedica i suoi versi per me più belli. Esiste davvero l’ascensore di Castelletto. Ma Caproni ne fa un disarmante, struggente simbolo di una ascesa laica alle fonti dell’esistere, della nascita e della morte: «Quando mi sarò deciso/ d’andarci, in paradiso/ ci andrò con l’ascensore/ di Castelletto, nelle ore/ notturne, rubando un poco/ di tempo al mio riposo». Genova è per Caproni una oscura, continua, ritmica fonte di ispirazione: «La mia città dagli amori in salita,/ Genova mia di mare tutta scale». E in un testo che stranamente Caproni esclude dal Terzo libro: «Genova mia città fina:/ ardesia e ghiaia marina./ Mare e ragazze chiare/ con fresche collane di vetro/ (ragazze voltate indietro,/ col fiasco, sul portone/ prima di rincasare)/ ah perdere anche il nome/ di Roma, enfasi e orina». C’è già in sintesi la musica tematica della splendida Litania: poche città al mondo possono vantare di essere state così anatomizzate e messe in rime ritmiche da un poeta.

Nel Terzo libro il mondo di Caproni è fatto di disperazione, solitudine, spinta verso la carne, disgusto: tutto, un occhio, un’alba persino, sa di «rifresco», parola inventata dal poeta per dire l’odore greve dei piatti mal lavati con un calco del ligure «refrescumme»: solo chi conosce questo temine può capire la nausea che ispira. Bar, latterie, bicchieri nuvolosi: e ragazze, giovinette nude senza maglie sul fiume che «aprono inviti/ taciturni nel sangue». Il passaggio di Enea si apre con una enigmatica Didascalia: «Fu in una casa rossa:/ la Casa Cantoniera./ Mi ci trovai una sera/ di tenebra, e pareva scossa/ la mente da un transitare/ continuo, come il mare».

Devo dire che è nel verso breve, nel suo settenario marcatamente ritmico, che Caproni dà il meglio. Nel viscerale falsetto di Lamento (o boria) del preticello deriso con l’epifania di Alessandra Vangelo, la bagascia di Smirne, una giunone da sballo: «quel petto, che esortazione,/ gente, era all’erezione!». Laico, leggibile, cantabile, spesso delizioso, Caproni non ha la vertigine profonda, la metafisica ossea, prosciugata di Montale, e neppure di Sbarbaro. Non apre nuovi universi. Forse oggi a molti piace proprio per questo.

Giuseppe Conte, IL GIORNALE 11 marzo 2016