Torna in una nuova edizione la “Vita di Gesù” del grande scrittore francese. Il cardinale Gianfranco Ravasi su “Avvenire” ricostruisce origini e ramificazioni di un’opera che nasconde nell’episodio di Emmaus il suo fulcro teologico.

Il 10 settembre 1970 si spegneva a Parigi François Mauriac, alle soglie degli 85 anni (era nato a Bordeaux l’11 ottobre 1885), carico di onori, di successi, di ammirazione pubblica. Nel 1952 era stato insignito del premio Nobel, a lui si erano inchinati rispettosi anche avversari della statura di André Gide, mentre De Gaulle gli ricambiava con entusiasmo la stima che lo scrittore gli aveva dedicato nel saggio omonimo pubblicato nel 1964. La sua bibliografia era in grado di colmare quasi un’intera biblioteca anche perché non aveva esitato a confrontarsi con tutti i generi letterari possibili: dalle decine di romanzi alle raccolte poetiche (la prima, intitolata A mani giunte,pubblicata a ventiquattro anni, era stata acclamata da un nume dell’Accademia di Francia come Maurice Barrès), dal teatro alla sterminata serie di saggi letterari, religiosi, storici, sociali, dalla diaristica di impronta autobiografica fino al giornalismo che lo fece uno degli editorialisti più letti di Francia.

Eppure questa icona così aureolata di luce celava nella sua anima e nelle sue pagine un’ininterrotta tensione oscura. Da un lato, infatti, incarnava lo spirito dell’alta borghesia da cui proveniva con tutto il suo apparato di perbenismo, di autoreferenzialità, di religiosità tradizionale e persino moralismo. Dall’altro lato, però, il suo intimo profondo – riverberato in tutta la sua produzione letteraria – era artigliato da un tormento incessante, alimentato dalla polla viva di una sorgente cristiana radicale, incontaminata, esigente. Non per nulla egli amava ripetere di essere «un cattolico per condanna » e il suo ideale, come è attestato da alcuni saggi, era Pascal con la sua inquietudine agostiniana e il suo ardore mistico. Per questo, egli è stato oggetto di perplessità da parte di un certo cattolicesimo, nonostante la sua indiscussa fedeltà alla Chiesa romana, venata alla fine anche da alcuni fremiti tradizionalisti che erano un’insorgenza del suo status borghese ma che non riuscivano a placare e cancellare le onde interiori del suo pessimismo e della sua ansia di autenticità. Infatti, nel suo ritratto del grande e appassionato predicatore domenicano ottocentesco, Henry-Dominique Lacordaire, Mauriac non esitava a registrare la tesi di «chi sostiene che la Chiesa è divina perché i suoi preti non sono riusciti a ucciderla».

Era anche convinto che «non c’è nessun altro luogo in cui i volti sono così inespressivi come in chiesa durante le prediche», sia per colpa del predicatore, ma sia anche per l’autodifesa che il borghese oppone alla potenza “offensiva” del Vangelo. Ritornare alla purezza del messaggio di Cristo diventava, perciò, il suo programma di vita e di scrittura. Parlare della fede cristiana esplicita dello scrittore è arduo perché essa intride tutte le sue pagine ed egli l’ha testimoniata con un coraggio inaudito in un Paese così “laico” come la Francia. Talora lo ha fatto per offrire una chiave interpretativa della sua stessa produzione lette- raria: «Anche su questo piano – osservava in un messaggio del 1933 – devo tutto a Gesù Cristo. La gioia e la pace della sua presenza, l’angoscia della sua assenza, lo stato di peccato e lo stato di grazia: tutto ciò ha costituito il giorno e la notte dell’umile mondo che ho immaginato, queste tenebre attraversate da raggi».

Le citazioni riguardanti le sue professioni di fede cristologica potrebbero proseguire all’infinito, soprattutto dai suoi saggi teologici, come nel caso del grandioso e infiammato Giovedì Santo (1931), o come accade in quelle Parole cattoliche (1954) che raccolgono una sua conferenza tenuta nel 1929 a Bilbao e Madrid e che costituiscono quasi la sua summa teologica, con affermazioni capaci di rasentare il paradosso dostoevskiano dell’opzione tra Cristo e la verità: «Con Cristo o contro Cristo: bisogna scegliere. Rifiutare di prendervi parte, vuol dire aver già scelto: “Chi non è con me, è contro di me”, disse Cristo. Felici coloro ai quali sarà concesso di comprendere che all’infuori di Lui non c’è nulla».

Sempre in questo ipotetico palinsesto cristologico rintracciabile nell’opera e nella vita di Mauriac, vorrei aggiungere una particolare attestazione personale. Ho avuto la fortuna di conoscere e di frequentare, sia pure limitatamente, il grande critico letterario e studioso di letteratura francese Carlo Bo. In uno di quegli incontri il discorso cadde proprio su Mauriac ed egli mi confidava che gli sarebbe piaciuto spiare lo scrittore in ginocchio nell’ombra della chiesa che frequentava a Parigi: «Sono sicuro che egli vedesse cose che nessuna interpretazione puramente umana potrà mai sostituire. Le parole e gli atti arrivano fino a un certo punto, dopo c’è soltanto Cristo e Dio». Ed è proprio ciò che scopriamo nella prefazione all’edizione del 1936 della Vita di Gesù: «Devo confessarlo? Non avessi conosciuto Cristo, “Dio” sarebbe stato per me un vocabolo vuoto di senso… È bisognato che Dio s’immergesse nell’umanità e che a un preciso momento della storia, sopra un determinato punto del globo, un essere umano, fatto di carne e di sangue, pronunciasse certe parole, compisse certi atti, perché io mi getti in ginocchio».

Nella Vita di Gesù si riflette in filigrana il profilo dell’uomo Mauriac pronto allo sdegno contro ogni arroganza e potere. È ciò che troviamo nella descrizione del confronto esplicito tra due modelli messianici antitetici, quello dell’“uomo di Keriot”, cioè Giuda Iscariota, e quello di Cristo stesso. Il primo obietta: «A che serve acquistare della gente da nulla? Non si sarebbero trovati dieci uomini influenti tra i discepoli. Quella gente si disperderebbe al primo urto». E invece, Gesù opta proprio per questa “cattiva compagnia” perché «conosce il nome di ciascuna d’esse: il nome, ma anche i crucci, le inquietudini, i rimorsi: tutto il povero ribollire d’ogni vivente cuore sul quale egli si piega come fosse in gioco un interesse eterno. Ed è vero che è in gioco l’eternità, e che il minimo di noi è accarezzato da una tenerezza particolare». Un’altra sottolineatura vogliamo riservarla alla stupenda scena finale dei discepoli di Emmaus narrata da Luca (24,13-35) che diventa agli occhi dello scrittore la parabola dell’itinerario di fede di ogni uomo e di ogni donna con le sue crisi, ma anche con quell’approdo nella stanza illuminata dalle fiamme del focolare e con la mensa imbandita e il pane spezzato. Già nella prefazione all’edizione del 1936 Mauriac riconosceva che quella scena era per lui paradigmatica perché la sua personale «profonda tendenza», anzi la sua «ostinazione» era quella di «preferire al volto di Cristo-Re, del Messia trionfante, l’umile figura torturata che nella locanda di Emmaus i pellegrini di Rembrandt riconobbero alla frattura del pane: il fratello nostro coperto di ferite, il nostro Dio». Ancora una volta l’Uomo-Dio perché «se Gesù non fosse il Cristo, io non sentirei nelle cattedrali che un vuoto immenso. Il cattolicesimo senza il Cristo sarebbe un guscio vuoto, curiosamente lavorato. La Croce senza il Verbo non sarebbe nulla più che una forca».

Credenti o non credenti (come per altro era il padre di Mauriac, Jean-Paul), siamo invitati a raccogliere l’eco perenne di quella domanda che un giorno Cristo ha fatto serpeggiare tra i suoi interlocutori e che ancora adesso può risuonare in coloro che si accostano alla Vita di Gesù: «Hymeis de tina me léghete eìnai; » «Ma voi chi credete che io sia?» (Matteo 16,15). Nel suo significativo Quinto evangelio (1975) lo scrittore Mario Pomilio concludeva: «Il Cristo ci ha collocati di fronte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei suoi discepoli di fronte proprio a questa domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Mauriac la sua risposta l’ha data in modo forte e chiaro.

Gianfranco Ravasi, AVVENIRE 23 dicembre 2015