David Grossman interviene sul dramma dei profughi siriani (da Repubblica)

Questa settimana, in un caffè di Gerusalemme, con l’audio del televisore appeso al muro silenziato, ho sentito una donna alle mie spalle dire a un’amica: «Questa ondata di profughi siriani, non so…». «Che cosa non sai? Ha chiesto l’amica ». «Da quando li fanno vedere in televisione con le mogli, i figli… non so, non sembrano nemmeno siriani». «E cosa sembrano?». «Non so… sembrano… le loro facce, il loro modo di parlare… Lo vedi che hanno paura, e si portano in spalla i bambini…» L’amica ha replicato: «Quelli, anche nella situazione in cui si trovano, ci scannerebbero tutti subito. Guarda cosa fanno tra di loro in Siria, tra fratelli, pensa cosa farebbero a noi se potessero». «Hai ragione», ha commentato sconsolata la prima, «comunque mi dispiace per i bambini». E l’amica ha ribattuto: «Certo, avrebbero dovuto pensarci prima di iniziare con tutto questo casino».

Io le ascoltavo entrambe e ho pensato che i siriani, per decenni, sono stati per noi, in Israele, l’incarnazione di Satana: donne dei corpi speciali che addentava- no serpenti vivi, l’impiccagione di Eli Cohen, i prigionieri israeliani torturati in Siria, i bombardamenti dei centri abitati della Galilea, e, naturalmente, la brutale guerra civile. E ho pensato che ora, dopo la distruzione della Siria e le ondate di emigrazione, improvvisamente possiamo vederli in un altro contesto: uomini, donne, ragazzi e bambini che un destino crudele ha strappato da tutto ciò che conoscevano e al quale erano abituati. Il nostro sguardo li vede in una prospettiva diversa, scorgiamo in loro tratti nuovi, espressioni del viso e movimenti del corpo che non avevamo registrato nella “banca immagini” della nostra mente quando parlavamo della Siria. Una banca che includeva raffigurazioni quasi esclusivamente di guerra: manovre, parate, saluti militari e grida di odio per Israele. Improvvisamente li vediamo muoversi come persone: genitori e figli, ragazze in jeans, ragazzi con lettori di musica e auricolari. Occhi addolorati, disperati, pieni di speranza. Gesti intimi di una coppia.

E forse anche a loro, ai profughi siriani, il dramma che stanno vivendo permetterà di guardare diversamente la vita. Ci sarà qualcuno felice di sfuggire alla morsa della gogna in cui era intrappolato quando pensava a Israele? La gogna della demonizzazione e dell’odio? Una gogna in cui sono nati, per così dire, e che probabilmente consideravano una buona scelta di vita. L’unica possibile per loro. Una gogna in cui erano imprigionati dalle circostanze, ovvero dalla politica e dalla retorica dei loro governanti dispotici, dal prolungato stato di guerra tra Israele e la Siria, dal lavaggio del cervello subito, fin da piccolissimi, per forgiare il loro atteggiamento nei confronti di Israele. E c’era, naturalmente, anche la gogna in cui li aveva imprigionati Israele: la minaccia che lo Stato ebraico rappresentava per loro con la sua potenza militare e le ripetute sconfitte inflitte al loro Paese. Forse per questo il popolo siriano ha assunto quel piglio bellicoso nei nostri confronti al quale ci ha abituato. Sempre e solo un piglio bellicoso che noi abbiamo assunto di riflesso, come in uno specchio. Oppure eravamo noi ad assumere quel piglio e loro a rifletterlo? Tutti noi siamo i prodotti di un contesto, e talvolta siamo prigionieri di un contesto. Metteteci in uno stato di guerra e combatteremo, odieremo, diventeremo nazionalisti e fanatici. Persone ermetiche.

Ma dateci condizioni di vita favorevoli, sicure, rispettabili, oppure limitatevi a osservarci, a guardarci, ostinandovi a estrapolare il nostro volto umano dal livellamento che tocca chiunque venga trascinato, involontariamente, in un grande movimento che lo sradica dal proprio luogo. Allora avrete la possibilità di trovare in noi un partner. E ancora una volta affiorano i pensieri sulla distorsione che la profonda ostilità nella quale viviamo – non solo nei confronti della Siria – provoca in noi da varie generazioni. E sul prezzo che paghiamo per questa distorsione: quello di rimpicciolire e di appiattire chi ci sta davanti e che viene etichettato come nemico anche interno, di destra o di sinistra – e una volta definito tale perde la sua complessità, la pienezza della sua esistenza.

E affiora la sensazione che i ferrei meccanismi della gogna – la gogna della guerra, dell’odio – ci siano penetrati nella carne al punto da credere che siano ossa e muscoli del nostro corpo. Che siano la nostra natura e quella del mondo intero, sempre, per l’eternità. E affiora ciò che ci rode dentro, al di sotto della realtà visibile: l’offesa di esistere in uno stato di guerra costante alla quale nessuno più cerca di porre fine. L’offesa di esserci abituati, in maniera obbediente, ai movimenti coreografici della guerra. L’offesa di essere diventati marionette nelle mani di coloro per i quali la guerra è una seconda natura, o forse, di fatto, una prima. E così eccelliamo nell’inventare nuove ideologie mirate a razionalizzare e a giustificare la situazione di evidente distorsione in cui viviamo. Un popolo che vive in uno stato di guerra sceglie come leader dei combattenti. In questa scelta c’è una logica che dovrebbe aiutarci a sopravvivere. Ma forse è vero il contrario. Forse sono i leader combattenti, militanti, con la coscienza intrisa di sospetti e di timori, a condannare il loro popolo a una guerra perpetua.

Faremmo bene a guardare i volti degli uomini e delle donne siriani in fuga dall’inferno del loro Paese. Senza dimenticare gli anni di guerra e di odio fra noi dovremmo guardarli bene perché a un tratto, come ha notato la donna nel caffè, in quei volti balena qualcosa di familiare. Magari è il nostro ricordo di profughi, insito in noi, o di una vulnerabilità umana che conosciamo bene, legata alla consapevolezza della fragilità dell’esistenza e all’orrore di chi si sente mancare la terra sotto i piedi. Per un istante rimaniamo stupiti di aver combattuto per decenni contro queste persone. E poi arriva la domanda più importante: cos’altro stiamo perdendo e cos’altro non vediamo con la testa bloccata in profondità nella gogna?

(David Grossman, Repubblica 13 novembre 2015)

(Traduzione di Alessandra Shomroni)