Come Leopardi e Baudelaire, Emile M. Cioran appartenne alla grande razza dei malinconici.

Era disperato, tragico, depresso, sconvolto; e poi la tragedia si capovolgeva in estro puro, gioco, parodia.

Nelle lettere al fratello (Ineffabile nostalgia, Archinto editore), sottolinea l’origine di questa malinconia: la madre. «Tutto quello che ho di buono e di cattivo, tutto quello che sono, l’ho preso da mia madre. Ho ereditato i suoi malanni, la sua malinconia, le sue contraddizioni. Ma in me ogni suo carattere si è aggravato ed esasperato. Sono il suo successo e la sua sconfitta».

Negli anni della giovinezza, questa malinconia aveva il tono di una furiosa disperazione lirica. «Come avrò fatto a non suicidarmi? Come avrò resistito sul piano nervoso?», commentava nelle lettere della maturità. Poi quel lirismo sfrenato gli diventò estraneo: troppo giovanile, entusiastico, poetico. Emigrò a Parigi, e venne salvato da una lingua.

Penso che sia l’unico caso, nella storia della letteratura, in cui una lingua abbia salvato un uomo dalla distruzione. Nell’estate del 1947, abbandonò il rumeno per il francese.

Con il suo rigido codice formale, il francese gli insegnò a rifiutare, a escludere, a dire di no, a rinunciare.

«Sapersi limitare», disse, «tale è il segreto del vero scrittore». La grammatica lo guarì dalla malinconia. Cioran cominciò una battaglia terribile con il francese, un’agonia nel vero senso della parola. Per anni, e forse sino alla morte, si sentì in una camicia di forza – costretto, contratto, impacciato da regole che lo torturavano.

«Sono», aggiunse ironicamente, «un profeta folgorato dalla grammatica». Fu una grandiosa vittoria. Invece di impazzire ed esplodere, Cioran diventò un saggio, che collochiamo accanto ai suoi Marc’Aurelio, Montaigne, Pascal.

La Romania restò un sogno. «Talvolta, quando penso al mio Paese, ho l’impressione di aver disertato un paradiso… Ho nostalgia di Sibiu, del Parco, della Dumbrav. Tutto ciò è stupido, ma non si possono combattere le aggressioni della memoria, le illusioni del passato». Era il suo fondale romantico. «È incredibile fino a che punto l’immagine di Sibiu sia rimasta in me».

Il fratello, Aurel, viveva in patria, prigioniero del carcere comunista. Non ascoltiamo la sua voce. Ascoltiamo soltanto la voce di Cioran, che ama il fratello, lo sostiene, gli invia vestiti. Soprattutto cura da lontano, come uno psichiatra, la sua profonda depressione.

Cioran abitava a Parigi e diceva di sentirsi chiuso in un «garage apocalittico»: diceva di detestarlo, di essere soffocato, abolito. Era costretto a conversare: parlare lo stancava, diceva; anche se parlare era per lui il trionfo dell’estro, del brio, di una febbrile felicità. Dopo cena usciva di casa, e camminava, camminava per chilometri, felice di possedere con i passi quella città meravigliosa. Una pigrizia atavica si impadronì di lui. L’avvenire stava dietro alle sue spalle: un’appendice senza importanza. Non era più un vivente, ma un sopravvissuto. Amava il proprio fallimento: quello che definiva il fallimento dei suoi bellissimi libri. Si sentiva sradicato; e questa assenza di radici era insieme una tragedia e una felicità, una mancanza e una gioia.

Via via che gli anni passavano, diventava più frivolo. «Soffro del suo stesso male», diceva del fratello, «ma lui, taciturno per natura, non ha accesso alla parola, mentre io, chiacchiero impenitente, esibisco le mie miserie e le converto in capricci». Sosteneva che questa chiacchiera era funebre: forse lo era, ma non smetteva per questo di essere profondamente ilare.

I due fratelli si incontrarono finalmente nell’aprile 1981, dopo quarant’anni di separazione forzata. «Mio fratello – diceva Cioran – è diventato un altro, uno straniero.

Non ha più lo stesso volto. Alla stazione stentai a riconoscerlo». Parlarono della loro infanzia, ma la conversazione era irreale, come un incontro tra due fantasmi. Presto Cioran diventò, alla lettera, un fantasma.

Fu assalito dall’Alzheimer, e costretto sulla sedia a rotelle. Aurel lo raggiunse e rideva con lui – anzi, come diceva Simone Boué – «sghignazzava alla rumena», come possono ridere due fantasmi.

(Corriere della Sera/com.unica 11 maggio 2015)

Articolo di Pietro Citati, Il Corriere della Sera dell’11 maggio 2015